Bussola di Forte dei Marmi, giugno 1978: il Paese era ancora frastornato e cupo per il delitto Moro, avvenuto due mesi prima. Mina aveva sempre sofferto il pubblico: subiva attacchi di panico e suscitava entusiasmi e reazioni eccessive. La gente si accalcava sotto il palco, le tendeva le mani a pochi centimetri, voleva toccarla, spogliarla. Lo raccontava Sergio Bernardini, il patron della “Bussola”. Più bella che nelle foto, alta un metro e 78, la sua voce, la sua passione, perfino i suoi sudori abbagliavano, eccitavano. Qualcuno disse che le sue “lunghe gambe squagliavano i selciati” per il calore che emanavano. Ma quella sera di giugno ’78 qualcosa le si ruppe dentro. Subito dopo il concerto si abbandonò, disfatta: «Stasera ho capito che non sono fatta per cantare in pubblico. Ho paura. Non sento più il fascino dell’applauso». E smise. Basta. Via dai concerti, dalle interviste, dalla TV. Perché?
Quando muore Montale, Mina dice a sorpresa alla radio: «Ha insegnato a dire NO, forse uno dei segreti per essere liberi». È la chiave per capire? Mina è sempre stata gelosa della sua libertà: donna imprevedibile, ostinata, creativa. Ha venduto oltre cinquanta milioni di dischi e una ricerca, tempo fa, ha rivelato che non sono solo gli ultrasessantenni ad acquistare i suoi dischi, ma anche i trentenni e i ventenni. Mina, dunque, non è soltanto nostalgia, è anche l’oggi. È una traccia sonora che accompagna decenni di vita nazionale. Ricorda la nostra età più felice: gli anni Sessanta.
Comincia nel ’58: gli occhi spiritati, i capelli corti, il corpo come disossato e elettrico. Faceva l’americana, Baby Gate è il suo nome di battaglia. Nel ’59 canta da Mike Bongiorno a “Lascia o raddoppia?”: il suo urlo, il suo brio sono uno shock. Si conquista le serate del sabato sera in TV, e c’era allora un solo canale. Diviene di colpo la numero uno. Troneggia in “Canzonissima” e in “Studio Uno”, con Don Lurio e le Kessler. Mina è la voce e il volto di quegli anni, è uno dei simboli del “boom”, di quella Belle Époque tumultuosa e contraddittoria che suscita ora tanta nostalgia.
C’erano tante Italie in ebollizione, e l’urlo di Mina significava liberazione: liberazione dalla lentezza dei ritmi di vita, dalla povertà, dalle angustie di una morale ipocrita che soffocava e spegneva. I ragazzi erano tutti in jeans e guardavano a Marlon Brando e James Dean. L’urlo di Mina va a braccetto con altre rivolte in altri campi: con l’urlo del poeta beat Ginsberg, con il volto di Marilyn Monroe, con le parole di M. Luther King. Il futuro non fa paura, anzi. Si compra che è un piacere: si va a rate. È la carica delle Seicento e delle Cinquecento. Nelle case si impongono i frigoriferi, sbucano lavatrici e aspirapolvere rumorosissimi. Ci sono due milioni di abbonati alla TV e migliaia di juke-box.
Nella vita pubblica, i Sessanta – cullati da Mina, dai suoi successi (“Città vuota”, “E se domani”, “Un anno d’amore”, “È l’uomo per me”, “Se telefonando”, “Sono come tu mi vuoi”, “Non credere”) – sono afflitti da avventurieri, scandali, ruberie e tangenti. Centinaia di migliaia di persone, ogni anno, lasciano il Sud. Le città crescono orrendamente, comincia il sacco di coste e monti, si sfigurano paesaggi con brutture che dureranno chissà quanti secoli. Il decennio si apre con le piazze in fiamme contro il governo Tambroni e si chiude con piazza Fontana. Ma, nonostante tutto questo, resta ora il ricordo di anni ricchi, scintillanti. Mina, il suo mito, rispecchia e interpreta le contraddizioni, ed è amata da tutti, intellettuali in testa.
Arbasino trova che è «il simbolo della forza delle cose», Gatto si commuove quando ascolta “Se telefonando”, Pratolini mette e rimette sul giradischi “Il cielo in una stanza”. Anno leggendario, il ’60: Visconti gira “Rocco e i suoi fratelli”, “La dolce vita” fa scandalo: alla prima, a Milano, uno spettatore sputa addosso a Fellini. Berruti vince la medaglia d’oro dei duecento metri alle Olimpiadi di Roma. L’economia va a gonfie vele: la lira conquista l’Oscar della stabilità dal Times.
Belle Époque. Mina è Belle Époque, Mina fa Belle Époque. Mina camaleontica, dalle mani sinuose, ondivaghe, arpeggianti. Mina trasgressiva: ci voleva coraggio a fare un figlio senza sposarsi. Quando, nel ’63, le nacque Massimiliano da Corrado Pani, subì l’ostracismo dalla Rai. Vergogna, peccatrice. Mancava poco le cucissero addosso la A di adultera, come a Hester Prynne, l’eroina della Lettera scarlatta di Hawthorne.
Mina amorosa, regina dei rotocalchi con gli uomini del cuore: il musicista Augusto Martelli, il giornalista Virgilio Crocco (nel ’71 nasce Benedetta), il discografico Alfredo Ceretti e infine il cardiologo Eugenio Quaini. Mina dolorosa: la morte del fratello Geronimo, pure lui cantante; la morte dell’ex marito Crocco. Mina imprevedibile, bizzarra, che rifiuta le offerte di Sinatra e Strehler, le tournée all’estero. Preferisce le ormai mitiche partite a scopa con gli amici; le piace cucinare, seguire i figli, leggere. Una chioccia padana. E scompare.
L’ho rivista anni fa, a Lugano, un pomeriggio di primavera, seduta a uno dei tavolini di un caffè all’aperto. Istintivamente mi venne voglia di avvicinarmi. Avrei voluto dirle tante cose… poi ho rinunciato, e non so perché. O forse lo so, ma questo non ha importanza. Canta, canta ancora, indimenticabile Tigre.