Ci sono espressioni che ci accompagnano da sempre, eppure ogni volta che le usiamo ci sorprendiamo un po’. “Hai preso lucciole per lanterne!” — quante volte l’abbiamo sentito dire a scuola, al lavoro, in famiglia. È una frase che scivola via con un sorriso, un piccolo rimprovero bonario. Ma dietro quelle parole si nasconde una storia lunga, luminosa, e – a suo modo – commovente.
“Prendere lucciole per lanterne” significa confondere una cosa per un’altra, prendere un abbaglio, sbagliare in buona fede.
È un errore che nasce da un’illusione: scambiare le deboli luci intermittenti delle lucciole per la luce forte, stabile, rassicurante di una lanterna. L’origine di questa espressione risale a un tempo in cui l’illuminazione pubblica non esisteva e ci si muoveva al buio tra campi e sentieri.
Le lanterne erano oggetti preziosi, indispensabili per vedere e non inciampare. Ma bastava un riflesso, una notte particolarmente buia, o la stanchezza per cadere nell’inganno: quelle piccole luci nel buio, quelle scintille nel silenzio… sembravano lanterne. Ma erano solo lucciole.
Non è un caso che Pier Paolo Pasolini abbia usato proprio questa immagine – le lucciole e le lanterne – in uno dei suoi scritti più amari, per denunciare la perdita della verità e della chiarezza nel linguaggio politico. Da allora, quell’espressione è diventata anche una metafora culturale: per chi si accontenta delle apparenze, per chi si lascia abbagliare da ciò che luccica, ma non illumina davvero.
Ma se ci pensiamo bene, prendere lucciole per lanterne è un modo di dire che ci salva. Perché non condanna chi sbaglia, anzi lo abbraccia. Racconta di un errore comune, ingenuo, tenero. Non è una colpa, è una distrazione poetica. È un errore che appartiene a tutti: a chi si innamora della persona sbagliata, a chi crede in una promessa vuota, a chi legge troppo velocemente un messaggio, a chi interpreta male uno sguardo.
In un mondo che ci chiede efficienza, rapidità, precisione, questa espressione ci ricorda che l’errore è umano, e a volte persino bello. Ci mostra che possiamo sbagliare senza perderci la poesia.
Nelle scuole italiane, alcuni insegnanti stanno riportando in classe proprio i modi di dire come prendere lucciole per lanterne. Non solo per arricchire il vocabolario degli studenti, ma per allenare il pensiero critico. In una scuola di Napoli, per esempio, durante un laboratorio linguistico è stato chiesto agli alunni di riscrivere alcune espressioni antiche in chiave moderna, ebbene una studentessa ha trasformato “prendere lucciole per lanterne” in “scambiare un like per amore”.
In quel semplice esercizio c’era tutta la forza dell’immaginazione e la consapevolezza dei tempi che cambiano. La lingua, del resto, non è mai ferma. Ma certi modi di dire resistono, proprio perché riescono a parlare anche ai ragazzi, se vengono raccontati con passione.
Oggi prendere lucciole per lanterne ha trovato nuove forme. Significa credere a una notizia falsa, scambiare una pubblicità per un’informazione, fidarsi troppo in fretta di un commento letto su un social. Le lucciole digitali sono ovunque: titoli acchiappa click, video virali, profili falsi, promesse illusorie.
Viviamo immersi in un flusso continuo di stimoli, e distinguere il vero dal verosimile richiede attenzione, pazienza, lentezza. Proprio le qualità che il mondo iperconnesso tende a scoraggiare. Ma il linguaggio ci viene in aiuto. Dire a qualcuno “Hai preso lucciole per lanterne” è anche un modo gentile per riconoscere che l’inganno è possibile, che l’errore è condiviso, che la colpa non è sempre solo individuale. E non è un caso che proprio i linguisti dell’Accademia della Crusca abbiano più volte sottolineato come le espressioni idiomatiche siano fondamentali per interpretare la realtà con profondità, per non restare in superficie.
In un certo senso, ci aiutano a leggere il mondo. C’è qualcosa di profondamente poetico in questo modo di dire. La lucciola è fragile, effimera, ma affascinante. La lanterna è concreta, utile, stabile. Confonderle è un gesto umano, e anche un po’ infantile. Ma forse è proprio lì, in quell’errore, che ci ritroviamo. Perché a volte è bello anche lasciarsi incantare da una luce che non serve a vedere, ma a immaginare.
Recuperare espressioni come questa non è un esercizio di nostalgia, ma un atto di attenzione. È scegliere di rallentare, di ascoltare, di usare le parole non solo per comunicare ma per costruire ponti. E in un tempo in cui l’errore viene spesso punito, ridicolizzato, nascosto, è quasi un lusso poter dire: “Mi sono sbagliato. Ho preso lucciole per lanterne”.
Se oggi usiamo ancora questa espressione, è perché ci somiglia. Perché ci parla di una verità semplice: nessuno è immune dallo sbaglio, e tutti, prima o poi, confondiamo ciò che brilla con ciò che vale davvero. E la prossima volta che ci sentiremo un po’ confusi, incerti, magari presi in giro da qualcuno per un errore fatto in buona fede, ricordiamolo: prendere lucciole per lanterne non è solo sbagliare — è il segno che stiamo cercando, esplorando, provando a capire.
Sbagliare vuol dire essere vivi. In fondo, “prendere lucciole per lanterne” è molto più di un errore di valutazione: è un modo antico di raccontare quanto sia facile lasciarsi ingannare dalle apparenze. Ma è anche un invito alla cautela, all’ascolto, alla lentezza.
In un’epoca in cui tutto corre e il confine tra vero e falso si fa sottile, riscoprire il senso profondo di certe espressioni ci aiuta a leggere meglio il mondo. E forse, a non perderci nel buio.