Stasera, nel tepore di un autunno insolitamente estivo, partecipo a uno dei sempre stimolanti “mercoledì culturali” della Fondazione Gerardino Romano – ETS, invitato dalla cara amica e collega di redazione Antonella Rosa.
La locandina, magnetica nel suo gusto insieme gotico e noir, era un preludio perfetto all’atmosfera intima e raccolta che ritrovo ogni volta in Fondazione.
Alle 19 in punto, le campane della chiesa di Santo Stefano aprono la serata (e, puntuali, la chiuderanno un’ora dopo). A introdurre l’ospite è il professore Felice Casucci; assessore regionale al Turismo, docente universitario e fondatore della Fondazione, intitolata al suo caro nonno telesino Gerardino Romano. L’andamento della conversazione è subito informale: nasce dalla complicità con cui il professore e l’autore si sono conosciuti negli uffici del centro direzionale, tra energie sottili ed empatia culturale.
Il protagonista è Antonio Nacarlo, artista napoletano che non conoscevo prima di questa sera, arrivato per presentare il suo ambizioso progetto culturale Napoli Up Close. Antonio aveva preparato un discorso, ma gli schemi si spezzano subito: la stima reciproca e quella curiositas che si accende tra i due rendono il dialogo vivo, sincero.
Si parla di una Napoli mutata, organismo che vive e cambia come tutte le città, ma che oggi costringe a riflessioni amare: i quartieri centrali si spopolano, gentrificazione e globalizzazione occupano gli spazi. La bellezza, certo, è celebrata dal turismo; e tuttavia ci si chiede se questa celebrazione non avvenga a discapito dell’anima ancestrale dei luoghi, quell’anima fatta di uno spontaneo sincretismo sociale che per secoli ha animato i vicoli. Vicoli che ora, spesso, tacciono: li attraversa il rumore freddo dei trolley e l’eco di accenti esotici.
E poi c’è l’altra Napoli, quella lasciata ai margini: l’estremo est della metropolitana, il quartiere di Barra, dove l’autore vive e dove vorrebbe radicare il suo progetto. L’idea è di dar vita a un’associazione di promozione sociale che, attraverso il linguaggio universale dell’arte figurativa, possa offrire orizzonti e speranza a tante nuove generazioni senza appigli, troppo spesso costrette a sentirsi cittadini di serie B.
Iconograficamente, Napoli Up Close prende corpo in un’opera-simbolo: una figura femminile di bellezza austera e ruvida, quasi mascolina. È la personificazione di una città a due facce, dura e delicata, creatrice e distruttrice. La donna divide la scena in due: a sinistra i binari dismessi della metropolitana, a destra le architetture nobili; sullo sfondo, il Vesuvio che domina.
Le riflessioni si allargano: dalle figure artistiche dimenticate del Seicento alle sfumature della mitologia norrena, fino al finale con la lettura di un racconto scritto da Antonio per l’occasione, “Agrus est. Racconto di saggezza travestito da follia”, ambientata nella vivace Napoli del 1730. Il messaggio resta addosso, insieme a una consapevolezza amara: la complessità del mondo non si lascia afferrare di colpo. Tornano allora i fili del Fato, superiore persino agli dèi, e risuona l’avvertimento ricordato dall’autore: “Gli uomini progettano e gli dèi sorridono.”
Ne discende un’etica minima e necessaria: “la verità non si insegna, ci si inciampa”; impariamo a rallentare, impariamo ad ascoltare: “non per giudicare, ma per capire.” Quando le campane segnano le 20, la serata si chiude. Si esce in strada con un dubbio fecondo: come custodire l’anima di Napoli (e magari anche la nostra) mentre tutto cambia? Up close, da vicino: guardandola negli occhi e senza smettere di farci domande.

