Da tempo ormai la gran parte degli studiosi accetta l’idea che Pietro sia effettivamente venuto da Cafarnao a Roma: l’Apostolo venne qui e vi morì, in croce e tra le fiamme, come tanti altri martiri cristiani, ad illuminare gli “Horti” di Nerone.
Certamente la sua salma fu calata nella nuda terra: “tomba terragna” la definisce Margherita Guarducci, che ha sempre sostenuto di avere finalmente trovato, dopo duemila anni, le ossa di Pietro. Dove? Là dove, ai tempi degli “Horti”, molti sepolcri si allineavano lungo una strada, ma in un punto preciso che anche i pagani in seguito rispettarono, nel senso che in quei paraggi non eressero alcun monumento funebre: quel tratto sgombro è chiamato dagli archeologi “Campo p” e si trova sotto l’attuale Basilica, come del resto l’intera necropoli.
Era la più povera delle tombe (non si parlava ancora del primato di Pietro e di Roma), e i fedeli non la persero d’occhio. Nel II secolo, per indicarla meglio alle nuove generazioni, Gaio, un dotto romano vissuto ai tempi di papa Zefirino, vi eresse sopra un piccolo monumento: un’edicola appoggiata a un muro di contenimento, il celebre “muro rosso” degli archeologi, perché dalla parte dell’edicola è appunto intonacato di rosso.
Probabilmente in quell’epoca, o poco dopo, fu costruito perpendicolare al “muro rosso” un altro muro, detto “muro g”, di uno spessore di mezzo metro. Forse, con gli altri muri che non ci sono pervenuti, secondo la Guarducci, delimitava un ambiente in cui si raccoglievano i fedeli a pregare. Emerso dagli scavi, un pezzo del muro è risultato pieno dei graffiti di quei primi devoti.
E poi, cosa avvenne? Costantino, reduce dalla vittoriosa battaglia di Ponte Milvio, eresse magnifiche basiliche dovunque fosse una reliquia, una tomba, una memoria dei primi cristiani: a Roma, come a Gerusalemme, a Nazareth o a Cafarnao. Ma a Roma fece qualcosa di più, qualcosa di sconvolgente, di inaudito: interrò l’intera necropoli mentre erano ancora vive le famiglie dei defunti; interrò anche i monumenti sepolcrali dei cristiani. Spianò i colli vaticani, stese la terra sulla necropoli e sugli “Horti”; risparmiò solo la piccola edicola, un pezzo del “muro rosso” e un piccolo pezzo del “muro g”. Anzi, in quest’ultimo fece scavare una nicchia a forma di parallelepipedo, lunga 71 cm, larga 29 e alta 31. La sesta parete era costituita dal “muro rosso”, contro il quale terminava la nicchia.
Secondo la Guarducci, una volta approntata la nicchia, Costantino fece prelevare le poche ossa superstiti del martire – erano passati quasi tre secoli – dalla tomba terragna, troppo umida; le fece avvolgere in un prezioso drappo di porpora e d’oro e collocare nella nicchia, all’asciutto, nel vano foderato di marmo. Quindi fece sigillare la nicchia. Ed è presumibile che un operaio abbia tracciato sull’intonaco rosso, con un oggetto appuntito, due parole in caratteri greci: Petros eni, Pietro è qui.
Poi il tutto fu inglobato in un compatto monumento rivestito di porfido, dalla forma di parallelepipedo, su una base di circa tre metri. Intorno al monumento fu costruita una basilica a forma di croce. Sul monumento funebre a forma di parallelepipedo, Gregorio Magno, nel VI secolo, vi eresse il proprio altare. Nel XII secolo, Callisto II vi costruì il suo; questo, a sua volta, fu incorporato nell’altare che nel XVI secolo costruì Clemente VIII e sul quale, nella nuova Basilica, sotto il baldacchino del Bernini e la volta di Michelangelo, il Papa ancor oggi officia.
Ma noi come facciamo a sapere che all’interno del cosiddetto “muro g”, racchiuso in un poderoso monumento sepolto da secoli sotto ben tre altari, c’è una nicchia? Lo sappiamo perché nel 1939 Pio XII ordinò un’ispezione, sotto la guida di monsignor Ludwig Kaas, uomo di fiducia di Pio XII e segretario economo della Fabbrica di San Pietro. Secondo Margherita Guarducci, si deve a monsignor Kaas il salvataggio di quelle che sono, senza dubbio a suo parere, le ossa del principe degli Apostoli.
Spesso la sera, terminati i lavori, il prelato compiva un giro d’ispezione in compagnia di un sanpietrino: la sua principale preoccupazione era di raccogliere e mettere da parte le ossa che riusciva a riconoscere, evitando così che finissero tra i calcinacci e altri detriti prodotti dagli scavi. Ogni giorno un autocarro ne portava fuori dal Vaticano una notevole quantità.
A forza di picconate gli scavatori arrivarono alla nicchia del “muro g”. Quella sera monsignor Kaas, accompagnato dal suo fedele sanpietrino, ispezionò la nicchia, rinvenne le ossa che erano particolarmente bianche e spiccavano tra i calcinacci, fece di tutto un pacco e lo ripose in una cassetta che fu poi collocata in un ripostiglio dove già si trovavano analoghe cassette. Il giorno dopo, gli scavatori, tornati alla nicchia, la trovarono vuota e ritennero che fosse sempre stata vuota, detriti a parte. Nelle relazioni finali si concluse che in nessun luogo era apparso il nome di Pietro.
La prof.ssa Margherita Guarducci, celebre epigrafista, scese agli scavi nel 1952. Tra i primi graffiti che lesse vi fu quello sulla tomba dei Valerii, impallidito ma ancora decifrabile. Secondo la Guarducci diceva: «Petrus roga… pro sanctis hominibus christianis ad corpus tuum sepultis»: «Pietro prega (Gesù) per i santi uomini cristiani sepolti presso il tuo corpo».
Lavorando sui graffiti del “muro g”, la Guarducci ripercorse anche la vicenda degli scavi, raggiunse nel ripostiglio quella cassetta deposta a suo tempo da monsignor Kaas (ormai defunto): all’analisi, le ossa risultarono appartenenti a un uomo di corporatura robusta, di età compresa tra i sessanta e i settanta anni. C’erano frammenti di stoffa mischiati con le ossa, e all’analisi risultarono colorati di porpora e intessuti d’oro.
Esaminata la relazione della Guarducci, Paolo VI, il 26 giugno del 1968, proclamò che le reliquie di Pietro erano state riconosciute e dispose che venissero ricollocate nella nicchia.