«Fotografare è un atto d’amore», diceva Sebastião Salgado, che si è spento a Parigi il 23 maggio 2025. Aveva 81 anni. «Bisogna amare profondamente ciò che si fotografa, anche quando fa male». Con lui scompare non solo uno dei più grandi fotografi del nostro tempo, ma anche una coscienza visiva collettiva, un viaggiatore capace di narrare l’intera epopea dell’umanità con uno sguardo profondamente morale.
Ciò che resta, più della biografia, è l’opera: una raccolta monumentale di immagini che ha attraversato oltre cento Paesi, quattro decenni di storia, guerre, migrazioni, disastri ecologici e resurrezioni vegetali. Ha raccontato, rigorosamente in bianco e nero, la fatica del lavoro, l’esilio dei popoli, la bellezza perduta della natura, la possibilità di rinascere.
Chi era Salgado? Un economista di formazione, nato nel cuore barocco del Brasile, il Minas Gerais. Dopo studi in Brasile e a Parigi, lavorava per l’Organizzazione Internazionale del Caffè, quando durante una missione in Africa impugnò la macchina fotografica della moglie. Fu, come lui stesso raccontò, un’epifania: «La luce passava attraverso l’obiettivo e mi entrava negli occhi, ma colpiva qualcosa molto più in profondità».
Negli anni ’70 lasciò l’economia e si immerse nella fotografia, collaborando con le agenzie Sygma, Gamma e infine Magnum Photos. Un uomo che ha scelto la fotografia come forma di vita, di pensiero e di azione.
L’opera fotografica di Sebastião Salgado si organizza in quattro cicli monumentali, frutto di anni di lavoro sul campo, viaggi faticosi, permanenze prolungate nei luoghi documentati. «Le foto della guerra in Iraq mi costarono la perdita di buona parte dell’udito. In Kuwait, con altri fotografi, ci ritrovammo in mezzo a un’apocalisse di seicento pozzi di petrolio dati alle fiamme».
Workers (1993): pubblicato dopo sei anni di viaggi, è una delle più potenti testimonianze del lavoro umano nell’epoca della globalizzazione. Salgado esplora miniere, cantieri navali, piantagioni, fonderie, saline, allevamenti: ogni immagine racconta non solo la fatica, ma anche la ritualità quasi sacra del lavoro manuale.
Exodus (2000): è l’opera che segna il passaggio dal lavoro alla migrazione: una dolorosa cartografia dei popoli in fuga. In Exodus, Salgado documenta milioni di persone che abbandonano le proprie terre per guerra, carestia o persecuzione. Profughi, rifugiati, nomadi, disperati: ma anche madri, padri, bambini.
Genesis (2013): per otto anni ha esplorato regioni incontaminate del pianeta: l’Antartide, le foreste del Congo, i deserti africani, l’Amazzonia, le isole Galápagos. Il risultato è un libro visivamente travolgente: la Terra come era prima di noi, o come potrebbe tornare a essere. È il Salgado più visionario, quasi biblico, un fotografo che si fa profeta della bellezza primordiale. Un atto d’amore, ma anche un grido muto contro la distruzione ambientale.
Amazônia (2021): i popoli Yanomami, Asháninka, Zo’é, Marubo, in un mondo che la politica e l’industria minacciano ogni giorno. Salgado documenta un patrimonio culturale e naturale fragile e sacro. L’Amazzonia viene mostrata non come scenario esotico, ma come cuore vivente del pianeta, respirazione ancestrale di un mondo che non possiamo permetterci di perdere.
Queste quattro opere costituiscono un’unica narrazione, un grande poema visivo: dal lavoro alla fuga, dalla distruzione alla rinascita. Un’opera totale, che racconta ciò che siamo e ciò che potremmo essere. La bellezza, per lui, non era compiacimento, ma strumento di consapevolezza. Ogni suo scatto è stato un atto di ascolto, un gesto di riconoscimento e di rispetto verso l’altro: uomo, animale o paesaggio che fosse.
Ha raccontato i minatori di Serra Pelada come fossero eroi omerici. Ha attraversato i deserti con i migranti, i campi profughi con i rifugiati, le foreste con i popoli nativi. Ha documentato la fatica, la fuga, la resistenza. Salgado non si è mai posto come predatore visivo. Ha vissuto con le persone che fotografava, ha condiviso pasti, attese, silenzi. È rimasto nei luoghi anche mesi. Ha guadagnato fiducia, prima che immagini, scegliendo di guardare in profondità con compassione e pazienza.
Poi, quando il mondo gli è sembrato irrimediabilmente perduto, fino ad ammalarsi, ha cambiato sguardo. È tornato alla terra, alla natura, alla genesi. Le sue fotografie sono lente, scolpite nella luce, immerse nel silenzio. Non cercano l’effetto, ma la verità. La sua idea di fotografia non è uno sguardo neutro, ma una presa di posizione.
A fine anni ’90, di ritorno da anni trascorsi a documentare guerre, carestie e genocidi, Salgado si ammalò. Una depressione devastante, un senso di impotenza. Il mondo che aveva visto, la violenza, la distruzione, la disperazione, lo aveva svuotato. Fu la moglie Lélia Wanick a indicargli una cura non convenzionale: tornare nella terra dov’era nato, dove un tempo sorgeva la fattoria di famiglia, e piantare alberi.
Lì trovò un paesaggio morto: arido, grigio, privo di vita. Quel deserto vegetale divenne il luogo della rinascita. Insieme fondarono, nel 1998, l’Instituto Terra, uno dei più sorprendenti esempi mondiali di riforestazione. In meno di vent’anni, piantarono oltre due milioni di alberi, recuperando più di 600 ettari di foresta atlantica brasiliana. Gli uccelli tornarono. I corsi d’acqua ripresero a scorrere. La biodiversità rifiorì.
Quello che sembrava un gesto poetico si rivelò un atto scientifico, politico, spirituale: testimonianza per immagini e riforestazione. L’Instituto Terra non è solo un successo ambientale: è una scultura vivente, una performance di lungo corso, una fotografia tridimensionale piantata nella terra anziché fissata su pellicola.
Nel documentario Il sale della terra (2014), diretto da Wim Wenders e dal figlio Juliano Ribeiro Salgado, questa vicenda è raccontata con rara intensità. Emerge tutta la fragilità e la forza di un uomo che ha attraversato l’inferno visivo del Novecento, i dannati della terra, e ha portato i loro volti nel cuore delle città, nei musei e nelle coscienze con un messaggio di speranza.
Fotografia e vita sono, per Salgado, la stessa cosa. Guardare, per lui, era anche un modo per guarire e acquisire una sorta di diritto al dubbio sulla legittimità delle azioni. «Quante volte nella mia vita ho messo l’apparecchio fotografico da parte e mi sono seduto per piangere. Ho visto cose talmente drammatiche ed ero solo. Ma questo è il potere del fotografo, quello di esserci stato».
La sua eredità va oltre i negativi: finché resterà almeno una persona che osserverà il mondo con il rispetto con cui lo guardava Sebastião Salgado, nulla sarà perduto.