Guardiamo lo schermo, ma non guardiamo più negli occhi. Sappiamo mandare cuori, ma non dire “ti voglio bene” guardando qualcuno in faccia. È la generazione più connessa di sempre — e forse anche la più sola.
Una vita online, ma a che prezzo?
I nativi digitali nascono con un profilo social che li attende ancora prima del primo vagito. Una foto, un hashtag, un filtro: è così che inizia, per molti, l’avventura identitaria. Crescono osservandosi riflessi in uno schermo, educati all’idea che visibilità equivalga a esistenza. Centinaia di amici su Instagram, migliaia di visualizzazioni su TikTok, ma il sabato sera, troppo spesso, lo passano da soli, sul divano, con il telefono tra le mani, a scrollare la vita degli altri.
I giovani nati tra il 1995 e il 2010 — la cosiddetta Generazione Z — vivono immersi nella rete, ma faticano sempre di più a costruire relazioni autentiche. Non è una tendenza passeggera: è un fenomeno sociale, psicologico e culturale, che studiosi, psicoterapeuti e pedagogisti stanno analizzando con crescente preoccupazione.
I numeri della solitudine
Secondo i dati più recenti dell’Istat (indagine Eu-SILC 2021), oltre un quarto degli italiani di età superiore ai 16 anni — per la precisione il 26,8% — dichiara di essersi sentito solo almeno una parte del tempo nelle quattro settimane precedenti. Un dato in netta crescita rispetto al 18,3% registrato nel 2018. Ancora più allarmante è la percentuale di chi si sente solo “sempre o quasi sempre”, pari al 6,5% della popolazione.
Il fenomeno colpisce in particolare le giovani generazioni: tra i 16 e i 34 anni, la quota di chi riferisce una condizione di solitudine almeno parziale è salita al 20,5%, contro l’11,7% del 2018. Numeri che parlano chiaro e disegnano una generazione sempre più connessa, ma sempre meno relazionata.
A livello demografico, la fotografia è altrettanto significativa: al 1° gennaio 2023, oltre 9,3 milioni di persone vivevano da sole in Italia, rappresentando il 35,8% delle famiglie. Tra gli over 75, quasi una persona su due vive in solitudine, con una netta prevalenza femminile.
Un ulteriore segnale d’allarme arriva da uno studio condotto dal CNR in collaborazione con l’Istat nel 2025, secondo cui il 39,4% degli adolescenti italiani tende ad autoisolarsi, e un preoccupante 9,7% mostra tratti riconducibili alla condizione di hikikomori, ovvero isolamento sociale estremo.
Dalla comunicazione alla performance
La comunicazione sui social non è più scambio, ma esibizione. Non si parla per conoscersi, ma per mostrarsi. Ogni foto è filtrata, ogni parola è pensata per piacere. È il dominio della “vetrina del sé”, come la definiscono alcuni sociologi: una proiezione patinata, costruita, spesso lontana dalla realtà.
E così, l’autenticità sparisce, lasciando spazio a un’ansia da prestazione sociale che svuota di senso i rapporti. Ci si mostra sempre, ma ci si rivela sempre meno.
Il corpo parla (anche se il cuore tace)
Non è un caso se sempre più giovani iniziano a somatizzare il disagio interiore: insonnia cronica, gastriti nervose, cefalee ricorrenti, attacchi di panico.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, 1 giovane su 4 tra i 18 e i 34 anni ha manifestato disturbi d’ansia, sintomi depressivi o somatizzazioni psicosomatiche nell’ultimo anno.
I dati AIFA confermano un aumento significativo dell’uso di ansiolitici e antidepressivi tra gli under 35.
I giovani si trovano spesso in una spirale di iperconnessione e ricerca compulsiva di approvazione — superando le 4 ore al giorno.
Dietro la facciata luminosa dei social si nasconde un’intera generazione che fatica a vivere la vita vera.
Cosa fare? Tornare umani
Recuperare lo sguardo. L’ascolto. Il silenzio condiviso. Riscoprire la bellezza di un caffè con un amico, di una chiacchierata senza interruzioni. In un mondo che ci vuole sempre connessi, la vera rivoluzione è tornare ad essere presenti.
Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di reimparare a usarla senza esserne usati. I social possono essere strumenti potenti, ma non devono sostituire la voce, la pelle, le emozioni.