Nel cuore della retorica contemporanea si è fatto largo un imperativo: dare voce a tutti. Un ideale che affonda le radici nei valori democratici più profondi, quelli che hanno visto il diritto alla parola come primo baluardo contro l’oppressione e la censura. Ma se il diritto a parlare è universale, non lo è – né lo può essere – il valore di ogni parola pronunciata. In un’epoca in cui la libertà di espressione si confonde con il diritto di dire qualsiasi cosa, il problema non è più solo chi può parlare, ma chi dovrebbe.
Non tutte le voci liberano: quando parlare è un atto irresponsabile
La libertà di parola è nata come difesa del pensiero critico. Oggi, in molti casi, è diventata il pretesto per la diffusione incontrollata di sciocchezze, offese, menzogne. È bene dirlo chiaramente: non tutti sono dotati di buon senso, discernimento, responsabilità. E proprio per questo, non tutto ciò che viene detto ha dignità di ascolto o merita l’attenzione e l’amplificazione su piattaforme pubbliche.
Ne è un esempio macroscopico il proliferare delle teorie del complotto durante la pandemia: personaggi senza alcuna competenza scientifica hanno usato YouTube, TikTok e Telegram per diffondere disinformazione medica, minare la fiducia della vera scienza e coscienza.
Il caso della dottoressa Judy Mikovits, protagonista del famigerato video Plandemic, è emblematico: un discorso privo di fondamento, virale per la sua spettacolarizzazione della paranoia, ha raggiunto milioni di visualizzazioni prima di essere rimosso. La sua parola ha avuto eco non perché vera, ma perché condivisibile, in una logica algoritmica che premia il sensazionalismo, non la competenza.
Ma non si tratta solo di scienza. Il discorso pubblico si è trasformato in uno scontro continuo, amplificato dai social, dove parlare “contro” garantisce più visibilità che proporre soluzioni. L’insulto ha soppiantato l’argomentazione. E la soglia del ridicolo si è talmente abbassata da diventare quasi la norma, probabilmente perché ci si sente più velleitari e invulnerabili perché celati dietro uno schermo piccolo o grande che sia, si nasconda la pavida natura autoreferenziale che se, la situazione si ribaltasse, cioè comunicare de visu, richiederebbe un’azione di forte e consapevole coraggio e responsabilità.
La parola non è neutra. Può costruire o distruggere
Non è solo questione di fake news. Ogni parola porta con sé delle conseguenze. Parlare significa agire, come ci ricorda J.L. Austin nella teoria degli atti linguistici: dire “ti condanno”, “ti accuso”, “ti amo” produce effetti variegati e devastanti nel mondo. La parola è performativa, cambia la realtà. Ma proprio per questo richiede consapevolezza.
Prendiamo il caso dei social media: piattaforme nate per “democratizzare” la voce sono diventate spesso megafoni per l’estremismo, l’odio, la mistificazione. Twitter/X, ad esempio, ha mostrato in molte occasioni la sua vulnerabilità alla disinformazione politica, come nel caso delle elezioni americane del 2020, quando le false accuse di brogli, sostenute da figure pubbliche, hanno contribuito a sfociare nell’assalto al Campidoglio.
Nel mondo reale, intanto, molte voci che avrebbero qualcosa da dire vengono messe a tacere. Pensiamo ai giornalisti assassinati per il loro lavoro d’inchiesta – da Daphne Caruana Galizia a Jamal Khashoggi – o alle attiviste che scompaiono in Paesi autoritari. Paradossalmente, chi ha parole scomode da pronunciare spesso non può farlo, mentre chi grida più forte in ambienti protetti può dire qualunque assurdità senza pagare alcun prezzo.
Ascoltare è un dovere, parlare è una responsabilità
Nella nostra epoca si è persa una distinzione fondamentale: la differenza tra diritto di parola e diritto di avere un pubblico. Avere un profilo social non ci rende automaticamente meritevoli di ascolto. Parlare in pubblico, o su una piattaforma pubblica, dovrebbe implicare un livello minimo di rigore, etica, verifica. E invece la logica dell’audience, dei “follower”, ha spostato il baricentro dalla qualità al volume.
La cultura del “dico la mia” ha partorito opinionisti seriali, influencer senza competenze, e sedicenti esperti pronti a dispensare consigli su qualunque cosa, dalla depressione al cambiamento climatico. È l’effetto “Bar Sport 2.0”, dove l’opinione personale viene scambiata per verità assoluta, e chi osa fare fact-checking viene tacciato di censura.
Eppure, esempi positivi esistono: sono quelle realtà che provano a costruire una parola pubblica fondata sull’ascolto e sulla formazione. Il metodo Philosophy for Children, praticato in molte scuole, insegna a bambini e bambine a discutere in cerchio, ad argomentare senza prevaricare, ad ascoltare chi ha un’idea diversa. Un piccolo laboratorio di democrazia comunicativa.
Altre esperienze, come Voices of Youth di UNICEF o StoryCorps negli USA, valorizzano le parole dei “non esperti”: migranti, anziani, giovani. Ma lo fanno con cura, contesto, moderazione. Qui la parola si accompagna alla narrazione, non all’improvvisazione.
La parola come diritto ma anche come arte difficile
Nel suo Discorso sulla servitù volontaria, Étienne de La Boétie notava che le tirannie si reggono spesso sul silenzio della maggioranza. Ma oggi il rischio è l’opposto: una tirannia del rumore, dove chi ha più da dire è coperto da chi ha solo da gridare. Il caos delle voci può diventare una nuova forma di censura.
Nel 2022, la filosofa Byung-Chul Han ha scritto che “la società della trasparenza” produce rumore, non verità: più comunicazione, meno comunicazione autentica. Il diritto alla parola, in questo scenario, non è più difendere chi tace, ma insegnare a parlare bene e ad ascoltare meglio.
L’educazione alla parola dovrebbe essere parte integrante del nostro sistema formativo: insegnare a scrivere, a pensare, a costruire un discorso coerente. Così come lo è imparare a stare in silenzio, a valutare quando è il caso di non dire nulla. Come ammoniva il proverbio ebraico: “Il saggio parla perché ha qualcosa da dire. Lo stolto, perché deve dire qualcosa”.
Non tutte le bocche devono aprirsi allo stesso tempo
Dare la parola a tutti, dappertutto, è un ideale alto. Ma senza filtri, senza etica, senza buon senso, rischia di essere una trappola. Parlare è un atto di potere. E chi ha potere senza responsabilità può solo generare confusione, divisione, disinformazione.
Non si tratta di censurare, ma di educare. Non di zittire, ma di chiedere consapevolezza. Perché in un mondo dove tutto si dice, nulla si ascolta. E nel silenzio delle parole autentiche, prosperano le urla vuote.