C’è chi lo chiama “anomalia, chi “marziano”. Forse per via di quel passo lento, controvento. Per l’assenza di protagonismo, per quel pudore quasi ostinato che oggi, in un’epoca che grida, risuona come un atto di resistenza. Ma Domenico Iannacone è, più semplicemente, uno dei pochi rimasti a fare giornalismo come si fa la scultura: togliendo l’inutile, e lasciando emergere il vero. Lui, con la calma di chi ha già scelto da che parte stare, sorride: “Ho impostato la mia narrazione con canoni antichi”. Ecco la chiave. Niente frenesia, niente cronometri d’ascolto. I tempi della vita, dice. Con i suoi silenzi, i suoi scarti, i suoi vuoti pieni di senso. “Che ci faccio qui” è tornato con un nuovo ciclo di prime serate su Rai3 a risvegliare la coscienza del Servizio Pubblico. La seconda puntata, intitolata Ricordati di me, andata in onda il 27 maggio, è un esempio esatto della sua poetica: tre storie che non si limitano a raccontare la mente umana, ma la attraversano. E la onorano.
La mente come luogo di resistenza – Una pagina centrale
Nel cuore della puntata, la storia di Matteo Moreschini sembra sospesa nel tempo, dando poi forma a quello che lui stesso definisce l’”imponderabile positivo”. Il giovane Matteo è stato per un mese nel buio del coma profondo in seguito ad un terribile incidente nel Centro America. Ma qualcuno si rifiuta di firmare la resa e, pur privo di una parte di cranio, intraprende il cammino di riemersione presso la CAVE Multisensoriale del Policlinico Gemelli di Roma. Questo ambiente è stato pensato dalla scienza per provare a risvegliare la coscienza attraverso le emozioni. Quello che nessuno osa sperare, l’imprevisto invisibile che racchiude la speranza di salvezza. Tra suoni immersivi, ricordi personali e suggestioni visive, la memoria non viene scossa con violenza, ma invitata con delicatezza a riaffiorare. E così Matteo, lentamente, ricompone il filo interrotto della sua storia. Torna a sé, si risveglia. E Iannacone non narra: accompagna. Non analizza, ma sta accanto a lui. Con la grazia discreta di un angelo di Wim Wenders, si fa presenza leggera, che ascolta anche il silenzio. Questa è la chiave della sua televisione: una lentezza rarefatta, il racconto come rito intimo e civile, atto di prossimità e attenzione.
Lo stile: tra antropologia e poesia
Dove altri cercano share, lui cerca senso. Dove altri forzano l’identità del dolore per spettacolarizzarlo, lui lo accoglie, gli offre uno spazio dove respirare. Il racconto di Iannacone orienta lo sguardo verso ciò che è dimenticato, marginale, ma essenziale. Non c’è “oggetto della narrazione”, ma “soggetto dell’incontro”. Non invade e sovrasta: si avvicina con discrezione: “Per guardare dentro l’anima degli uomini bisognerebbe essere per un poco invisibili” dice. Attraverso Amelia Rosselli, che lo pubblica da giovane, ha avuto modo di conoscere e frequentare i grandi poeti italiani del Novecento, come Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni e Mario Luzi. Questi incontri hanno influenzato il suo approccio alla narrazione, portandolo a cercare uno “spazio metrico” anche nel racconto giornalistico.
Ogni episodio nasce come un verso: con un inizio già scritto nella mente, e una conclusione che si costruisce sul campo, guardando negli occhi l’altro. “Non preparo mai un’intervista”, racconta. “So solo che attraverserò un luogo, che incontrerò una persona. Il resto nasce lì”. La sua è una televisione che si nutre del neorealismo, delle periferie di Pasolini, di vite defilate da Wenders a Malick, offrendo una grammatica del reale. Come in Ladri di biciclette, ogni dettaglio quotidiano contiene una verità politica ed emotiva. È lì che Iannacone riconosce la propria vocazione: raccontare il dolore e la dignità, senza orpelli, restituendo a ogni storia il diritto negato alla felicità. In ogni racconto è dentro, con la sua voce bassa, le mani nude, il corpo che abbraccia. Un uomo che crede che “la tv non debba solo narrare, ma incidere”.
La sua idea di servizio pubblico non è una vetrina neutra, ma uno spazio civile, dove il racconto si fa azione concreta, e la testimonianza diventa responsabilità. E lo fa davvero. Dietro ogni storia, Iannacone cerca – e trova – una possibilità concreta di cambiamento. È tra i pochi, forse, a praticare un giornalismo che torna sul posto, che verifica se qualcosa è cambiato. Perché lui stesso, all’inizio, ha sofferto profondamente: ogni storia lo travolgeva, lasciandolo nudo di fronte al dolore altrui. Ma ha trovato una via, quasi una cura, nell’idea che almeno una persona, tra quelle incontrate, potesse ricevere un aiuto concreto. Che il racconto non fosse solo rappresentazione lo dimostrano anche i tanti riconoscimenti: cinque Premi Ilaria Alpi, il Premio Ideona, il San Giorgio, il Borsellino, il Flaiano, il Biagio Agnes. Premi veri, non di cortesia. Ma lui li guarda sorridendo. “Mi interessa più un messaggio di una madre che ha trovato aiuto grazie a una mia puntata, che un premio”.
La terza puntata – “La casa degli altri”
Il viaggio continua. Martedì 3 giugno su Rai3, va in onda La casa degli altri. Un nuovo sguardo su ciò che dovrebbe proteggerci: la casa. Luogo che può essere rifugio o prigione, inizio o fine. E che Iannacone esplora non come spazio fisico, ma come architettura dell’identità. Anche qui, come nella mente, si entra in punta di piedi. E si resta, se c’è calore. Domenico Iannacone non cerca scoop, cerca umanità. E la trova, ogni volta. Come un rabdomante gentile, che batte il selciato della realtà con pazienza e ostinazione. Un marziano che, alla fine, è l’unico rimasto davvero terrestre.