A Stella Cilento, c’è un appuntamento che ogni estate accende il cuore del paese: si chiama “Cùntarìa – Storie e allegria”. Dal 19 al 24 agosto 2025, per una settimana intera, il borgo si risveglia in una festa di voci, sorrisi e racconti condivisi. E non succede solo qui. A Torre Orsaia c’è il Cilento Etno Festival, a Novi Velia risuonano le zampogne del Festival degli Antichi Suoni, a Centola e Palinuro l’estate si vive insieme, tra eventi e piazze animate. Ma le storie più belle, quelle che davvero restano, nascono nei paesi più piccoli, lontani dai riflettori.
È lì che spesso accade la magia: le scuole coinvolgono i bambini, che vanno a trovare i nonni, li ascoltano, li registrano, poi disegnano ciò che hanno sentito e lo portano in scena con piccole recite.
Così i cunti tornano a vivere — non come ricordi sbiaditi, ma come parole che continuano a camminare. Ogni vicolo ha qualcosa da raccontare. Perché la cultura, a Stella, non sta chiusa in un museo: la trovi in una battuta spontanea, in un proverbio antico, in un racconto sussurrato con il cuore. Non sono favole da libri patinati, ma storie vere o immaginate insieme, che vivono solo nella voce di chi le tramanda. Storie che un nonno ha sentito da suo nonno, che una zia ha imparato da sua madre, che un vicino di casa porta nel cuore da settant’anni.
Ogni volta diverse, eppure sempre familiari. Perché dipende da chi le racconta, da come si sente quel giorno, da chi ha davanti. Il dialetto, nel Cilento, non era solo un modo di parlare: era la lingua naturale del racconto, il ritmo stesso della narrazione. Non servivano traduzioni, bastava ascoltare. E anche se oggi i più piccoli non colgono ogni parola, qualcosa arriva lo stesso. È il tono della voce, la pausa tra le frasi, lo sguardo di un nonno che racconta. È lì che si trasmette la cultura: in quel passaggio lento, silenzioso e potente che avviene da persona a persona.
Oggi, però, non è più così scontato trovare qualcuno che racconti un cunto. Le piazze si svuotano, i borghi si assottigliano, e i racconti intorno al camino lasciano il posto alla televisione o ai cellulari. Eppure, qualcosa si muove.
In tutto il Cilento cresce la consapevolezza che questa memoria va salvata, prima che si perda per sempre. I cunti non sono mai stati perfetti. Sono veri. E anche nell’era del digitale, conservano un fascino che sfugge alla velocità di Internet. Sempre più scuole si trasformano in piccole officine della memoria: registrano le storie dei nonni, le montano come podcast, le caricano online.
E funziona. Perché chi ascolta avverte subito che dietro quella voce c’è una persona, con le sue emozioni, i suoi respiri, le sue pause. È un filo diretto con la tradizione. Ma per quanto la tecnologia possa aiutare, l’esperienza diretta resta un’altra cosa. Nessuna registrazione può restituire lo sguardo complice, il calore di una voce che ti attraversa. È nel racconto dal vivo, in quel momento in cui chi parla ti guarda negli occhi e tu trattieni il respiro, che accade qualcosa di unico. A dare forma scritta a tutto questo, senza snaturarne l’essenza, ci ha provato anche chi ama profondamente questa terra.
Raffaele Scorziello, ad esempio, ha pubblicato Li cunti di un cilentano, un libro che è più una carezza che un saggio. Dentro non ci sono solo racconti veri, ma anche scene di vita quotidiana, battute di famiglia, proverbi che profumano di pane appena sfornato.
Ogni pagina è un pezzo di memoria salvata. E la scelta più forte è stata proprio questa: non tradurre. Il dialetto è rimasto com’era. Perché certe parole, se le cambi, perdono sapore. E certe emozioni, se non le lasci parlare con la loro voce, si spengono. Del resto, queste storie non servivano a far addormentare i bambini, ma a svegliarli al mondo. Erano racconti educativi, che insegnavano il rispetto, il timore del pericolo, l’attenzione verso l’altro. Usavano la paura, certo: le maàre, streghe che rapivano i disobbedienti, o il diavolo nei boschi. Ma lo facevano per proteggere, non per spaventare.
Perché i cunti non servono solo a ricordare. Servono a capire chi siamo. In un tempo che cambia in fretta, dove le radici sembrano sfumare, queste storie restano ancore di senso. Non per restare fermi nel passato, ma perché per andare avanti, bisogna sapere da dove si viene.
La sfida oggi è non lasciarle morire. Non si tratta solo di folklore o di cartoline da vendere ai turisti. Qui si parla di identità, di comunità, di una memoria viva. Le scuole, le famiglie, le associazioni possono fare molto. Ma serve anche che ognuno di noi si prenda il tempo di raccontare. E, ancora di più, di ascoltare. Perché finché ci sarà qualcuno disposto a cominciare con un “Na vota c’era…” — e qualcun altro capace di fermarsi ad ascoltare — allora i cunti non moriranno. E nemmeno il cuore del Cilento.