La vicenda di Pasternak e del suo celebre romanzo, Il dottor Živago, appare per molti versi esemplare, non solo e non tanto perché fu uno dei primi “casi” internazionali, ma soprattutto perché coincise con l’inizio di un decennio di rottura che, sull’onda rinnovatrice del XX Congresso del Pcus e del rapporto Chruščëv, aprì grandi speranze di liberalizzazione politica e culturale. Alla fine di quel decennio, però, si vide che la via della libertà di pensiero era ben più accidentata di quanto si pensasse, e il traguardo era ancora molto lontano.
Oggi, la lunga e complicata burrasca del “caso Pasternak” ci sembra ormai preistoria. Dopo 60 anni, nessuno sembra ricordarla più. Eppure imperversò con inaudita virulenza, come uno scandaloso giallo letterario e politico, dall’autunno 1957, anno di uscita in Italia, in sensazionale “prima” mondiale de Il dottor Živago, al 2 giugno 1960, data delle esequie semiclandestine del poeta e scrittore russo nel cimitero di Peredèlkino.
Il clima ostile che aveva circondato quegli ultimi anni tempestosi della sua vita si poteva dedurre da un verso della poesia Amleto, che i pochi amici, intorno al feretro, recitavano a voce alta: «Sono solo, tutto intorno a me sprofonda nella falsità». Perseguitato e vilipeso a Mosca, pubblicato clamorosamente a Milano dall’editore comunista Feltrinelli, premiato fra perplessità e polemiche a Stoccolma con il Nobel (che fu costretto a rifiutare), esaltato dopo la morte da un film famoso, Boris Leonidovič Pasternak è stato non solo uno dei più grandi poeti russi del Novecento.
È stato anche il contrario, col suo timbro lirico sommesso e allusivo, di altri poeti come Esenin, Majakovskij, Mandel’štam: suicidi di fatto i primi due, suicida d’istinto il terzo. Pasternak appariva tutt’altro che animato da furori autodistruttivi; era piuttosto un amante della vita, un cultore della perfezione estetica, un erratico seduttore di donne erudite e belle. Il che lo induceva a cercare, cautamente, più il compromesso che lo scontro con l’insidiosa realtà sovietica. Sapeva benissimo che c’era poco da scherzare con l’occhiuto sistema poliziesco instaurato da Lenin e portato a suprema totalità da Stalin.
Secondo Vladimir Nabokov (che non amava il romanziere), docente di letteratura russa negli atenei americani, Pasternak nel suo romanzo evitava di affondare il bisturi nelle viscere della guerra civile susseguente alla rivoluzione d’Ottobre. Infieriva contro i combattenti “bianchi”, facendo vedere al tempo stesso, nell’estremismo rivoluzionario del comandante “rosso” Strelnikov, che si spostava come Trockij in treno blindato da un fronte all’altro, l’ombra di un traditore latente.
Trattava poi i protagonisti principali, Živago e Lara, come due acomunisti (non anticomunisti) sperduti tra i flutti di una storia violenta e imprevedibile. Infine, per la loro figlia Tanja, lavandaia, “rozza materia” di ultima generazione, si preannunciava, dopo la seconda guerra mondiale, un futuro migliore sotto la protezione di uno zio inatteso: il generale Evgraf Živago, fratellastro “positivo” di Jurij Živago.
Secondo Nabokov, insomma, trasparivano toni prudentemente “chruščëviani”. In effetti Nabokov, forse esagerando, aveva colto diversi punti ideologicamente deboli del romanzo trafugato – col consenso dell’autore – dalla Russia e consegnato a Feltrinelli. Ma, nel frastuono e nell’eco travolgente suscitata in tutto il mondo dal romanzo, dal film di David Lean, dal contestato premio Nobel, gli era sfuggito il punto forse essenziale dell’intera faccenda: il rifiuto, in epoca chruščëviana, opposto dalla censura alla pubblicazione russa di un libro che si inseriva comunque, per molti aspetti, nel canale dei disgeli chruščëviani.
A Nabokov, evidentemente, sfuggiva l’assurda banalità di fondo delle contraddizioni sovietiche. E allora resta la domanda: perché mai Chruščëv, che nel 1962 non si opporrà a Solženicyn, lasciava che nel 1958 i cerberi del regime facessero a pezzi l’inerme e assai meno pericoloso Pasternak? Il dottor Živago, tutto sommato, era una cavalcata mesta, cauta, riflessiva e poetica attraverso sessant’anni di storia russa; in sostanza, non vi si rivelava nulla che già non si conoscesse.
Invece, con Una giornata di Ivan Denisovič, la giornata di un contadino deportato, per la prima volta la letteratura sovietica apriva le sue porte blindate alla verità sull’arcipelago di schiavitù e di agonia dei gulag. Insomma, non sapremo mai perché uno stesso regime poliziesco, controllato da un medesimo dittatore, aveva sbarrato l’accesso alle librerie al malinconico Živago per lasciarlo libero, dopo un paio d’anni, all’esplosivo Denisovič. Probabilmente non lo sapeva neanche Chruščëv.
Pasternak morì la sera del 30 maggio 1960, stroncato da un male incurabile. Lo portarono al cimitero nel tardo pomeriggio del 2 giugno: la bara, secondo l’usanza russa, era scoperta, e il morto aveva attorno ai capelli grigi tante dalie. C’era nel corteo la gente del villaggio, le persone che lo avevano amato, qualche amico: Pautovskij, Virta, Katajev.
Svjatoslav Richter suonava al piano la Marcia funebre di Chopin, e le note uscivano dalla dacia, leggere. Lo deposero sulla collina sotto un vecchio pino. Alla fine della cerimonia, la folla sembrava riluttante a sciogliersi. Poi cominciò a sparpagliarsi in gruppetti silenziosi. Il vecchio pino restò solitario a stagliare la propria figura contro i bagliori dell’ultimo sole di giugno, che risplendevano sulla terra smossa di fresco. Un cane abbaiava lontano, cantavano i merli nel bosco, e stridevano, volando basse, le cornacchie. Una farfalla bianca volava sui papaveri scoloriti che fiorivano sulle tombe vicine. Lontano, si percepiva nel crepuscolo il rintocco della campana della chiesa.