Nell’epoca della comunicazione globale e della manipolazione algoritmica, la fame del popolo non è più soltanto materiale, ma simbolica: fame di senso, di giustizia, di verità. L’articolo analizza la trasformazione della società contemporanea in un sistema di “inganno universale”, dove la sovrabbondanza di informazioni e la spettacolarizzazione dell’esperienza generano una nuova forma di povertà cognitiva. Attraverso un approccio interdisciplinare che coniuga filosofia politica, sociologia dei media ed epistemologia critica, il testo esplora la dissoluzione del senso di giustizia e la progressiva disapplicazione dei diritti fondamentali, evidenziando il ruolo della burocrazia, della seduzione mediatica e della privatizzazione del diritto come strumenti di controllo. Citando autori come Debord, Han, Foucault e Bateson, l’articolo propone una riflessione sulla necessità di una rinascita del pensiero critico e di un’etica della lucidità, intesa come capacità di discernimento e resistenza all’inganno sistemico. La fame, infine, viene reinterpretata come energia politica e morale: non più segno di privazione, ma di un desiderio ancora vivo di verità e libertà.
Fame e inganno: il linguaggio della manipolazione contemporanea
La fame del popolo, oggi, è fame di senso, di giustizia, di verità. Mai come nell’attuale società dell’iperconnessione l’essere umano ha avuto tanto accesso all’informazione, e mai come oggi è stato così profondamente disorientato. La sovrabbondanza di notizie, immagini, narrazioni — amplificate dai media digitali e dagli algoritmi di selezione — ha prodotto un nuovo tipo di povertà: quella neuronale ed etica.
Il cittadino contemporaneo, sommerso da flussi continui di comunicazione, vive in una sorta di indigestione simbolica, di martellamento mediatico. Le parole si consumano, la verità si diluisce, e il linguaggio — un tempo strumento di rivelazione — diventa strumento di occultamento, di depauperamento mentale. Come scriveva Guy Debord ne La società dello spettacolo, l’immagine non rappresenta più la realtà, ma la sostituisce. Ciò che appare vero lo è, anche quando non lo è affatto.
Ma la fame del popolo non nasce soltanto da questa crisi semantica: è il sintomo di una più vasta crisi morale delle istituzioni, dove la giustizia si riduce a procedura e il diritto a privilegio. Quando la legge smette di proteggere i più deboli e inizia a servire i più forti, quando la verità giudiziaria si piega alle logiche del potere economico o politico, la fame diventa rabbia, impotenza, disperazione.
Il cittadino comune percepisce che la promessa democratica — quella di uguaglianza e tutela — è divenuta un linguaggio vuoto. In molti Paesi, i diritti fondamentali vengono disapplicati in nome della “sicurezza”, della “stabilità dei mercati” o dell’“emergenza permanente”. I diritti sociali si contraggono, quelli civili vengono condizionati, quelli ambientali rimandati a un futuro ipotetico. È in questo spazio di negazione che la fame diventa universale: fame di giustizia, fame di equità, fame di umanità.
L’inganno universale: la dissoluzione del senso di giustizia
L’“inganno universale” è oggi un sistema, non un’eccezione. Esso si nutre della disillusione collettiva e della normalizzazione dell’ingiustizia. La menzogna non si presenta più come tale: assume la forma della “necessità”, della “competitività”, della “ragion di Stato”. È così che si giustificano guerre preventive, sfruttamenti globali, violazioni ambientali e precarietà diffuse.
L’abolizione del senso di giustizia non è dichiarata apertamente, ma realizzata silenziosamente attraverso tre processi convergenti:
- La burocratizzazione dell’ingiustizia: i diritti vengono annullati non con la forza, ma con la modulistica, con la lentezza amministrativa, con la complessità deliberatamente creata. Il povero non viene negato: viene sommerso di procedure. La donna che denuncia violenza viene lasciata in attesa di un verbale; il migrante che chiede asilo viene ingabbiato in anni di attese; il lavoratore precario si perde in contratti intermittenti che garantiscono tutto, tranne la sacrosanta dignità.
- La spettacolarizzazione del dolore: la sofferenza diventa contenuto mediatico. L’ingiustizia, invece di indignare, diventa intrattenimento. Un bambino muore in mare, ma la notizia si dissolve in ventiquattr’ore; una guerra distrugge una città, ma lo spettatore la percepisce come una fiction. Così, l’empatia si anestetizza, e il senso di giustizia si atrofizza.
- La privatizzazione del diritto: la giustizia diventa un bene di lusso. Chi può permettersi un avvocato ottiene difesa, chi non può resta ai margini. La sanità, l’istruzione, la casa — un tempo considerati diritti universali — vengono progressivamente trasformati in merci, accessibili solo a chi ha potere d’acquisto o anche accaparramento di “pizzini” in nome di una commercializzazione di farmaci che a tutto servono, ma non a garantire la cura e la sopravvivenza all’individuo.
In questo contesto, come osserva Byung-Chul Han, il potere non reprime più, ma seduce. Non impone, ma orienta. Non vieta, ma distrae. L’inganno universale opera dunque non per coercizione, ma per saturazione: produce consenso attraverso la disattenzione e la dissonanza cognitiva.
La fame dei diritti: quando la legge smette di proteggere
Nel mondo globalizzato, la fame del popolo assume forme molteplici. È la fame del lavoratore che vede i suoi diritti dissolversi in contratti temporanei e salari irrisori; è la fame dell’esule che cerca un rifugio e trova muri; è la fame della donna che lotta per l’uguaglianza e incontra ancora discriminazione e violenza istituzionale.
La fame è anche quella del pianeta, deprivato di equilibrio ecologico mentre le grandi potenze fingono di cercare soluzioni climatiche mai attuate. È la fame del cittadino che assiste alla corruzione impunita, alla giustizia selettiva, all’indifferenza verso le disuguaglianze strutturali.
Quando l’ingiustizia diventa la norma, il diritto perde la sua funzione etica e si trasforma in strumento di esclusione. Il “diritto penale del nemico”, teorizzato da Günther Jakobs, non riguarda più solo i terroristi o i criminali, ma si estende progressivamente a intere categorie di persone: i poveri, i migranti, i dissidenti. In tal modo, la giustizia si frammenta, e la sua universalità viene corrotta da una logica di appartenenza.
Le costituzioni restano formalmente intatte, ma sostanzialmente svuotate. I principi fondamentali vengono celebrati nelle ricorrenze, ma ignorati nelle politiche. La fame del popolo, allora, è la fame di coerenza: quella distanza dolorosa tra i valori proclamati e le azioni compiute.
Come districarsi: la rinascita del pensiero critico
In un mondo dove la giustizia è ridotta a slogan e i diritti a concessioni, l’unica via di riscatto è il pensiero critico. Recuperare il senso della verità significa rifiutare la logica binaria dell’informazione digitale, che impone di scegliere tra “vero” e “falso” senza spazio per la complessità.
È necessario, come propone Gregory Bateson, sviluppare una ecologia della mente che ristabilisca l’armonia tra emozione e ragione, tra individuo e collettività. Ciò implica un’educazione alla lentezza, alla responsabilità, al dialogo. Dubitare non è un atto di debolezza, ma di coraggio. Solo il dubbio consapevole restituisce al cittadino la capacità di distinguere tra giustizia apparente e giustizia reale.
Recuperare la fame come impulso positivo significa trasformarla in desiderio di conoscenza e di equità. È un atto politico e morale insieme: una ribellione silenziosa contro l’indifferenza.
L’etica della lucidità
Districarsi tra le false verità non significa trovare un’ideologia definitiva, ma ricostruire un’etica della lucidità. Il popolo ha fame perché è stato privato del diritto di comprendere, del diritto di credere, del diritto di sperare.
Eppure, la fame è anche promessa: segno che non tutto è perduto. Finché c’è fame, c’è desiderio. Finché c’è desiderio, c’è possibilità di risveglio.
Nell’era dell’inganno universale, la verità non sarà mai data una volta per tutte, ma potrà rinascere ogni volta che un individuo — anche solo uno — avrà il coraggio di dire no all’ingiustizia, sì alla conoscenza, e sì all’altro essere umano.
Solo allora, forse, il popolo non avrà più fame.
