Nell’estate 2025, l’arte esce dai musei e va incontro alle persone. Si infiltra nei borghi, anima festival di piazza, prende vita nei cortili e perfino dentro vecchie fabbriche abbandonate. Non si guarda più da lontano, in silenzio: si attraversa, si ascolta, si vive. A volte basta una passeggiata per incontrarla all’improvviso. E quando succede, spesso è proprio lì che lascia il segno.
Venezia resta il punto di partenza ideale.
La 61ª Biennale d’Arte – aperta fino a novembre – conferma che l’Italia è ancora una terra dove si sperimenta, si rischia, si accoglie. Il Padiglione Italia, ad esempio, non espone semplicemente opere: le attiva. Alcuni visitatori raccontano che sembrano muoversi, respirare, rispondere alla voce di chi le osserva. L’intelligenza artificiale non è solo un tema espositivo: è parte integrante dell’esperienza. L’arte non si contempla più in silenzio, ma si costruisce nell’interazione. Il padiglione coreano, per esempio, apre lo sguardo a visioni di città verdi, silenziose, quasi sognanti.
Quello ucraino, invece, scuote con immagini di ferite e ricostruzioni, di crepe che possono diventare passaggi. A Roma, intanto, cresce l’attesa per “Fantastica”, la 18ª Quadriennale d’Arte che da ottobre riempirà il Palazzo delle Esposizioni con uno sguardo nuovo sull’italianità: cinque curatori, oltre l’85% di artisti alla prima partecipazione, molti stranieri ma residenti in Italia. Una selezione coraggiosa e aperta alla contaminazione. Ma il battito dell’estate artistica italiana non risuona solo nelle grandi capitali.
A Gibellina, in Sicilia, le Orestiadi tornano a raccontare memoria e rinascita nei luoghi simbolo del terremoto, come il Cretto di Burri. Dal 27 giugno al 3 agosto, performance e installazioni si fanno racconto collettivo. E non è un caso se Gibellina è stata nominata Capitale italiana dell’arte contemporanea 2026: un riconoscimento che conferma quanto i territori periferici non siano più solo spettatori, ma veri protagonisti.
Lo dimostra anche Una Boccata d’Arte, progetto diffuso che dal 28 giugno al 28 settembre porta venti artisti in venti borghi italiani, uno per regione. Le opere sono site-specific, pensate per i luoghi e per le persone che li abitano. Alcune rimarranno anche dopo il festival. Qui l’arte si intreccia alla quotidianità, diventa paesaggio, dialoga con l’ambiente, sorprende anche chi non l’aveva mai cercata. E mentre la tecnologia alimenta nuovi linguaggi, non bisogna dimenticare ciò che accade a terra, nei luoghi vissuti.
A Verona, il Veronetta Contemporanea Festival ha trasformato interi quartieri in cantieri creativi: arte visiva, danza urbana, musica sperimentale.
A Savona, Connexxion ha usato spazi pubblici e privati per interrogarsi su cosa voglia dire, oggi, “comunità culturale”. In questi contesti, il pubblico non è più spettatore, ma co-autore. Partecipa, reagisce, costruisce.
Ciò che colpisce dell’estate 2025, è la varietà. Ogni luogo racconta una storia diversa: c’è l’arte che riflette, quella che celebra, quella che consola. C’è l’arte che parla di identità, ambiente, memoria. E quella che semplicemente ci fa fermare, respirare, sentirci parte. Il valore risiede non più nella definizione, ma nella relazione che si crea tra l’opera e chi la incontra.
Le opere non sono più appese bensì scivolano nelle strade, si fondono con l’esistente, convivono con l’ordinario. A volte durano un giorno, altre restano. Magari si scoloriscono col tempo. Ma è proprio questa fragilità che le rende autentiche. Come a dire: l’arte non è qui per durare in eterno, ma per lasciare un segno. È questo, in fondo, il vero potere dell’arte quando riesce a uscire da sé: creare movimento. Spostare sguardi. Generare domande.
Oggi l’AI non è più solo uno strumento. È un interlocutore creativo. Lo si capisce parlando con chi la usa davvero. “Non le chiedo di imitare lo stile umano. Le chiedo di sbagliare con me”, racconta l’artista Davide Quayola in un’intervista per DOMUS. Le sue opere, realizzate con sistemi generativi, non riproducono la realtà: la destrutturano, la mettono in discussione. La macchina, in questo processo, diventa compagna e sfida.
Già nel 2024, la Fondazione Modena Arti Visive aveva ospitato Re: Humanism, una mostra dedicata al rapporto tra AI e creatività. Una delle installazioni più discusse era Dreaming Chen di Giovanni Vetere: un’intelligenza artificiale che simula sogni sulla base di stimoli emotivi. Non solo interazione, ma introspezione digitale. E se a Torino, con il progetto Futures, una performer ha “allenato” un algoritmo a reagire emotivamente ai movimenti del pubblico durante la danza, altre voci più critiche invitano alla cautela.
Alcuni artisti temono che l’AI possa appiattire lo sguardo, sostituire l’intuito con la statistica. Ma ci sono anche quelli, come il collettivo IOCOSE, che la usano per ironizzare sui miti del progresso lineare e rivelarne le contraddizioni.
In fondo, la vera forza di quest’estate sta proprio qui: non nel celebrare la tecnologia come un totem, ma nel metterla alla prova, farla sporcare di realtà. L’intelligenza artificiale non è la fine della creatività umana, ma il suo specchio. Uno specchio strano, imperfetto, che ci costringe a guardarci con occhi nuovi.