Quante volte ci capita di usare una parola con naturalezza — una di quelle che abbiamo sentito da sempre in famiglia, magari mentre si apparecchiava la tavola o si raccontava qualcosa tra amici — e scoprire, poco dopo, che altrove non vuol dire nulla? O peggio, che vuol dire tutt’altro? È in quei momenti che ci rendiamo conto di quanto l’italiano, quello che parliamo davvero, non sia un’unica lingua, ma un territorio attraversato da infinite sfumature.
Non parliamo dell’italiano dei manuali o delle buone maniere. Parliamo dell’italiano vivo: quello che si muove tra le case, nei mercati, nei messaggi che ci scambiamo ogni giorno. L’italiano che cambia da città a città, da generazione a generazione, e che non si trova in un dizionario, ma in bocca alla gente. Due fenomeni, in particolare, aiutano a capire quanto questa varietà sia ricca e affascinante: i geosinonimi e i geoomonimi. I primi sono parole diverse che indicano la stessa cosa, a seconda di dove ci si trovi. I secondi sono ancora più insidiosi: sono parole identiche che, in giro per l’Italia, assumono significati del tutto diversi.
Il nostro lessico quotidiano non è uguale per tutti. È il risultato di storie, abitudini, influenze e stratificazioni che si sono sedimentate nel tempo. Ogni città, ogni borgo, perfino ogni quartiere ha il suo modo di dire, di chiamare le cose. E quel modo di dire, anche se non ce ne rendiamo conto, ci definisce. È il segno, silenzioso ma forte, di un’appartenenza.
Quando una stessa parola cambia senso da un luogo all’altro, non si tratta solo di curiosità: è un indizio.
Un segnale che ci dice che la lingua non è mai ferma, e che ciò che per noi è ovvio, per altri può essere un mondo del tutto diverso. E dietro ogni differenza c’è una storia: non solo linguistica, ma anche culturale e affettiva. Il modo in cui chiamiamo le cose racconta da dove veniamo, che ambiente ci ha cresciuti, cosa abbiamo ascoltato per anni nelle nostre relazioni più intime. Questa varietà, che oggi ci appare così preziosa, non è sempre stata considerata un valore.
Dopo l’Unità d’Italia, la diffusione dell’italiano standard fu lunga e non priva di ostacoli. La lingua comune era quella delle istituzioni, dei documenti ufficiali. Nella vita quotidiana, però, si parlavano i dialetti, si usavano i vocaboli della propria zona.
Solo più avanti, con l’espansione dell’istruzione, l’aumento della mobilità e l’intensificarsi dei contatti tra le persone, l’italiano ha cominciato a diventare davvero la lingua dell’uso quotidiano. Ma non è mai stato un italiano “puro”.
Oggi si parla spesso di italiano neo-standard: un italiano che accoglie, che mescola, che si lascia contaminare senza perdere coerenza. Una lingua che non pretende più di essere uniforme, ma che si arricchisce delle sue differenze. E proprio da questo nuovo sguardo sono nati, negli ultimi anni, progetti che studiano e valorizzano la diversità linguistica del nostro Paese. Come l’Atlante Linguistico Italiano, o le mappe interattive costruite anche grazie ai contributi delle persone comuni, che raccontano come una stessa parola possa avere mille vite a seconda di dove viene pronunciata.
In tutto questo, c’è anche una lezione di convivenza. Capire che non esiste un solo modo corretto di dire le cose ci insegna a guardare l’altro con più attenzione, e meno giudizio.
La varietà linguistica non è una babele da correggere: è una ricchezza da accogliere. È una prova del fatto che l’Italia non è un blocco compatto, ma un insieme armonico di voci diverse. E forse è proprio questo il cuore del discorso.
Le parole non sono solo strumenti per capirsi: sono memorie, emozioni, identità. Ogni volta che sentiamo un termine che ci sembra “strano”, invece di storcere il naso, possiamo provare a chiederci da dove viene. Cosa racconta. Chi lo ha usato per la prima volta. In quella parola c’è, probabilmente, una persona, una famiglia, un paesaggio che ancora non conosciamo.
In un tempo in cui tutto corre e tende a uniformarsi, imparare ad ascoltare le differenze è un modo per restare umani.