Nel 2025, Ossi di seppia compie cent’anni. E l’Italia lo celebra con numerosi eventi: da Genova a Firenze, da Torino a Milano, si moltiplicano mostre, letture pubbliche, incontri, ristampe critiche, omaggi internazionali. Monterosso al Mare — luogo simbolico della poetica montaliana — inaugura un percorso letterario permanente: il sentiero dei limoni, le scogliere battute dal vento, la villa d’infanzia. Le grandi case editrici come Mondadori e Garzanti preparano nuove edizioni annotate. La Rai e le maggiori testate culturali partecipano al tributo con podcast originali, programmi televisivi, approfondimenti tematici.
Nel 1925, un giovane poeta ligure decide di rompere con le aspettative del suo tempo pubblicando un libro dal titolo audace e sorprendente: Ossi di seppia. Niente richiami alla classicità, nessun abbellimento lirico, nessuna consolazione. Solo ciò che il mare restituisce dopo aver consumato tutto: un osso bianco, spolpato, fragile. Un residuo. Un simbolo. Il titolo è emblematico: quegli “ossi” rappresentano ciò che rimane, ma anche ciò che testimonia. Sono rovine, eppure hanno qualcosa da dire. Sono tracce, eppure persistono. Montale non cerca l’armonia: cerca l’onestà dello sguardo. La sua sintassi franta e nervosa, la scelta lessicale essenziale, l’uso etico della parola anticipano l’ermetismo, ma si distaccano dal misticismo. È una poesia della soglia, che non chiude né apre: interroga.
L’Italia del 1925 era ferita, stanca, inquieta. Il fascismo avanzava, il futurismo proclamava la sua fede nel progresso, e la poesia sembrava divisa tra retorica patriottica ed elegia malinconica. In questo contesto, Ossi di seppia arriva come un taglio netto: una poesia della sottrazione, del dubbio, della verità nuda. All’uscita, Ossi di seppia passò quasi inosservato. Ma chi lo lesse con attenzione — Boine, Saba, Debenedetti — ne colse subito la forza di rottura. Negli anni successivi, Montale consacrerà il suo valore con altre raccolte poetiche , tra cui Le occasioni e La bufera fino al Premio Nobel del 1975. Eppure, tutto cominciò lì, su quella spiaggia, dove l’unica bellezza era quella del resistere. Quel libro, pubblicato in tiratura limitata da Piero Gobetti, nascondeva una frattura profonda, una rivoluzione silenziosa destinata a cambiare il volto della poesia italiana. A un secolo di distanza quella voce asciutta e rigorosa continua a sussurrarci che la vera bellezza non è quella dell’esprimere tutto ma quella – più rara – di saper ascoltare. Ed è forse per questo che oggi, più che mai, ci parla. Bastano sei parole — “Spesso il male di vivere ho incontrato” — per condensare un’intera visione del mondo.
In Ossi di seppia, la realtà non è rifugio né riflessione astratta: è materia ruvida, secca, minerale. Il paesaggio ligure — i muri, il vento, le alghe — diventa specchio dell’anima. La natura non consola, ma conferma l’inquietudine. La parola si fa necessaria. Una poesia senza ornamenti, costruita con ciò che resta, e proprio per questo essenziale.
A un secolo dalla sua prima apparizione, Ossi di seppia non è solo un classico. È un testo vivo, che continua a ridefinire il nostro sguardo. Non spiega, non consola: resiste. E ci insegna che anche la poesia, a volte, non ha bisogno di alzare la voce. Le basta restare ed è per questo che il vero omaggio a Montale è il più semplice: aprire ancora oggi Ossi di seppia.
Un’opera che anche nel tempo presente — fatto di crisi ambientali, solitudini digitali, incertezze collettive —ci parla ancora. Non perché offra soluzioni, ma perché ci invita a restare nel dubbio. La sua voce asciutta ci suggerisce che anche il silenzio può diventare poesia, che anche un frammento può contenere l’intero, che la bellezza più autentica è quella che resiste.
E ogni volta, quei versi tornano a brillare come “girasoli impazziti di luce”.
Nel 1925, un giovane ligure fece il suo ingresso nel mondo letterario con un libro dal titolo spoglio e dissonante: Ossi di seppia. Nessuna promessa di bellezza classica, nessuna ricerca del sublime o della melodia elegiaca. Solo un’immagine cruda e minimale: ciò che resta dopo che il mare ha fatto il suo corso, un frammento bianco e scarnificato lasciato sulla riva. Apparentemente dimessa, quell’operazione editoriale rappresentava in realtà una rottura netta con il passato. A distanza di un secolo, la prima raccolta di Eugenio Montale continua a imporsi come una delle più radicali rivoluzioni poetiche del Novecento: un gesto di sottrazione, di essenzialità, di etica della parola. Montale non si affacciava alla poesia da accademico o da intellettuale di professione. Era un autodidatta, nutrito di musica e letteratura straniera, cresciuto tra la roccia viva di Monterosso e le dissonanze del primo dopoguerra. Le sue prime poesie nacquero tra i venti e i venticinque anni, in un’Italia ancora percorsa dai traumi del conflitto, dove il fascismo prendeva forza, il futurismo urlava la sua modernità roboante, e la poesia sembrava inchiodata a una scelta binaria: o la retorica o il pianto.
Ossi di seppia seppe indicare una terza via: quella del disincanto lucido, della parola scabra, del silenzio che dice più di mille metafore. Una poesia che rinuncia all’ornamento per scavare nella sostanza, e che proprio per questo non ha mai smesso di interrogarci.
Ci sono libri che non smettono mai di parlarci. Libri da tenere accanto, come si fa con gli amici più sinceri, quelli che ci sorprendono ogni volta con una verità nuova. Ossi di seppia, pubblicato nel giugno del 1925 da Piero Gobetti Editore, è uno di quei testi-rivelazione. A un secolo esatto dalla sua uscita, la prima raccolta poetica di Eugenio Montale non è soltanto un monumento della letteratura italiana del Novecento: è una mappa esistenziale, una fenditura nel linguaggio da cui ancora oggi filtrano dubbi, luci, inquietudini. Il centenario è l’occasione per tornare a sfogliare queste pagine essenziali e appuntite, ma è anche un invito a chiederci: cosa resta della voce di Montale oggi? Come suonano i suoi versi nel cuore delle nuove generazioni, tra social e intelligenza artificiale?
La risposta, sorprendentemente, è che Ossi di seppia continua a parlarci — anzi, a guardarci dentro. Perché la forza della poesia montaliana sta proprio qui: nella sua capacità di ridefinire il nostro sguardo, di inchiodarci con immagini spoglie e abbaglianti, che scavano sotto la pelle del quotidiano. In poco più di cento pagine, Montale ha distillato il senso tragico dell’esistere, l’impossibilità di trovare risposte definitive, l’illusione di una via d’uscita appena accennata – “una maglia rotta nella rete” –, che ci lascia sempre a metà tra il disincanto e la speranza. I suoi versi, come “girasoli impazziti di luce”, continuano a risplendere. Non spiegano, non consolano, ma resistono. Ossi di seppia non è solo un classico: è un testo vivo, capace di inaugurare una sensibilità nuova ogni volta che lo rileggiamo. E oggi, nel tempo dell’incertezza e del rumore, quelle parole scarne e necessarie ci sembrano più attuali che mai. Non è un caso che, a 44 anni dalla sua scomparsa, Montale resti uno degli autori più studiati, letti e citati, dentro e fuori dalle scuole. Ogni anno si vendono ancora oltre 6.000 copie della raccolta: numeri rari per un’opera poetica. E poi, chi non si è mai imbattuto – per dovere o per caso – nei versi di Non chiederci la parola, Meriggiare pallido e assorto, Spesso il male di vivere ho incontrato, Forse un mattino andando…?
La prima apparizione di Ossi di seppia avvenne nel 1925, in un’edizione quasi clandestina: solo mille copie, stampate dal giovane editore torinese Piero Gobetti. Un esordio sommesso, ma destinato a lasciare un segno profondo nella storia della poesia italiana. Già il titolo è una dichiarazione di poetica: non fiori, non stelle, ma ossi, resti corrosi dal mare — simboli di ciò che sopravvive alla marea dell’esistenza, privato dell’incanto eppure carico di significato.
La raccolta si fa portavoce di una visione del mondo tagliente e priva di illusioni, un mondo in cui il “male di vivere” non è una parentesi, ma una condizione strutturale dell’essere. È in queste poesie che Montale affina una lingua asciutta e incisiva, scavata come la pietra delle scogliere liguri, capace di restituire l’inquietudine dell’anima attraverso immagini quotidiane e paesaggi essenziali. Il paesaggio delle Cinque Terre non è sfondo decorativo, ma interlocutore silenzioso: una natura che non consola né protegge, ma che riflette e amplifica il senso di precarietà e di immobilità dell’uomo moderno. La poesia montaliana rinuncia agli orpelli della retorica per farsi sismografo dell’esistenza, puntando dritto al nocciolo della condizione umana — senza indulgenze, senza risposte facili.