Ci sono parole che sembrano scomparse, ma in realtà stanno solo aspettando che qualcuno le chiami per nome. Parole che sanno di carta ingiallita, di libri chiusi da troppo tempo, di nonni che parlavano “diverso”. E quando riemergono — magari per caso, in una frase dimenticata — ci sorprendono per la loro bellezza. E per quanto ci assomiglino ancora.
In un’epoca fatta di emoji, vocali da due minuti e abbreviazioni compulsive, alcune parole tornano a farci l’occhiolino da un tempo passato.
Parole rare, musicali, spesso dimenticate, che all’improvviso ci mancano. Perché ci siamo accorti che ci servono ancora. C’è qualcosa di rassicurante in certi vocaboli fuori dal tempo: abbacinare, smargiasso, procace, nugolo.
Non salgono nei trending topic, non fanno notizia, ma quando li incontri ti sembrano piccoli oggetti smarriti nel cassetto della lingua. E fanno luce. Ti accorgi che raccontano cose che le parole comuni non sanno più dire.
Trasecolare, ad esempio, è perfetta per quando restiamo senza parole davanti a qualcosa. O baluginare, che evoca quella luce incerta, tremolante, che somiglia a certi pensieri che non troviamo mai il coraggio di dire.
La lingua italiana — come ogni lingua viva — cambia. Si adatta, si trasforma, perde pezzi e ne trova di nuovi. Alcune parole scompaiono perché non servono più. Altre vengono messe da parte perché sembrano troppo “serie”, troppo lente per la fretta quotidiana. E spesso cedono il posto a prestiti più agili, soprattutto dall’inglese. Ma ogni parola che svanisce porta con sé un pezzetto di memoria. Non solo culturale, ma anche intellettuale.
Perdere una parola significa perdere anche una sfumatura del pensiero. Negli ultimi anni, però, qualcosa si sta muovendo. Online stanno nascendo piccoli rifugi linguistici, luoghi digitali dove le parole dimenticate vengono rimesse in circolo.
Uno tra tutti: la pagina Instagram “Paroledimenticate”, che ogni giorno propone un termine desueto con la sua definizione e un contesto d’uso. I follower leggono, si incuriosiscono, provano a usare quelle parole in una storia, in un commento, persino in una mail di lavoro. È un gioco, sì. Ma anche una forma di resistenza creativa. E di cura.
Anche dentro le scuole qualcosa sta cambiando. Alcuni insegnanti propongono agli studenti di “adottare” una parola in disuso: la cercano, ne scoprono l’origine, la fanno rivivere in un racconto, in una poesia, in un podcast. Ragazzi di tredici anni che usano parole come tracotanza o appagato non sono nostalgici. Sono curiosi. E quando quella curiosità si accende, la lingua smette di essere un dovere da imparare e diventa uno strumento per scegliere meglio cosa dire e come dirlo. Fuori dalle aule, il viaggio continua.
Nella musica di certi cantautori, nei monologhi teatrali, nei romanzi storici, le parole antiche trovano nuova voce. Capossela, Celestini, autori di slam poetry: tutti usano il lessico come una leva per spostare l’immaginazione. Per evocare, distinguere, sorprendere. E anche per restare fedeli a sé stessi. Non useremo chimelogia tutti i giorni, è vero. Ma sapere che esiste ci dà una possibilità in più: dire qualcosa di diverso, trovare un suono preciso, aprire una finestra nuova sulla realtà. Come tenere una bottiglia pregiata in cantina: non la bevi spesso, ma sai che c’è. E già questo basta.
Recuperare una parola dimenticata, in fondo, è un piccolo atto di libertà. È scegliere di non accontentarsi del minimo, di non lasciare che il linguaggio si appiattisca. È voler pensare meglio, con più sfumature. Dire struggimento invece di tristezza, intriso al posto di pieno. Sono scelte di stile, certo. Ma anche di visione.
Le parole dimenticate non sono soltanto vecchi arredi di una lingua che cambia. Sono strumenti ancora validi, pronti per un uso nuovo, più consapevole. Forse non le useremo tutti i giorni, ma sapere che esistono — e che possiamo sceglierle — ci rende più liberi.
In un mondo che spinge alla velocità, alla semplificazione, all’uniformità, recuperare una parola antica è un modo per rallentare. Per pensare con più precisione. Per raccontare con più verità. Perché il linguaggio non è solo ciò che usiamo per esprimerci. È anche ciò che ci forma. E ogni volta che riscopriamo una parola, riscopriamo anche un modo diverso di stare al mondo. Con più attenzione. Con più profondità.