Ebbe una vita brevissima ma intensa, scrisse molto. Ammirato da Luchino Visconti, fu amico fraterno di Carlo Levi. Vicino ai contadini, fu osteggiato dai notabili del suo territorio. Finì in carcere per una congiura politica dei suoi avversari e fu assolto con formula piena Questa esperienza lo segnò per sempre. Muore nel 1953, a trent’anni.
Ha scritto molto Rocco Scotellaro nella sua brevissima vita, stroncata da un infarto nel 1953. Aveva trent’anni. Trent’anni febbrili che, dalla Lucania fuori dalla Storia di Carlo Levi, lo portarono nelle redazioni e nei circoli intellettuali delle grandi città, passando dalle lotte contadine alle patrie galere per una falsa accusa di concussione e, dopo la morte, nel titolo di uno dei migliori film di Luchino Visconti che, nel 1960, gli rese omaggio dando il suo nome al protagonista di Rocco e i suoi fratelli.
Per studiare, Scotellaro era dovuto andare prima nel convento dei frati cappuccini di Sicignano degli Alburni, poi presso i francescani di Cava de’ Tirreni. Finito il ginnasio, frequenta il primo anno di liceo a Potenza, il secondo a Trento, ospite della sorella, e prende la licenza liceale a Tivoli, nel 1942, dove si manteneva come istitutore nel locale Convitto Nazionale.
Scriveva tanto, il poeta contadino: racconti, poesie, articoli, indagini sociologiche, trascrizioni di canti popolari, raccolte in volume qualche anno fa (Rocco Scotellaro: Tutte le opere, a cura di Franco Vitelli, Giulia Dell’Aquila e Sebastiano Martelli, edizioni Mondadori). Il volume comprende anche un romanzo incompiuto, L’uva puttanella, dove quegli acini minuscoli versati nel tino rappresentano il Sud povero e rurale: «Così il mio paese fa parte dell’Italia. Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo.»
Belle, bellissime le poesie di Scotellaro: sensuali e assolate, rabbiose e innevate, politiche e intime. Poesie pubblicate solo dopo la sua morte. Presso la casa editrice Einaudi c’era chi le amava di più, come Italo Calvino, e chi meno, come Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Le pubblicherà Mondadori. La raccolta postuma È fatto giorno vince il Viareggio nel 1954. E crea qualche mal di pancia nel Pci: c’era chi sentiva puzza di eresia. Il Pci, o parte di esso, non vedeva di buon occhio la poesia “sociologica” di un mondo contadino velatamente anarchico e lontano dal mondo operaio.
Vita brevissima ma intensa, dicevamo. Nel 1943, a vent’anni, si iscrive al Partito Socialista; tre anni dopo si candida a sindaco di Tricarico, il suo paese. Viene eletto: è il sindaco più giovane d’Italia. Nel 1948, anno in cui la Dc stravince le elezioni, viene rieletto e concretizza un sogno coltivato a lungo e una promessa: un piccolo ospedale con 40 posti letto.
Nel 1950 viene arrestato e rinchiuso per oltre un mese nel carcere di Matera. L’accusa è di concussione, un’accusa costruita a tavolino dai notabili della zona, suoi avversari politici. Interviene Carlo Levi, che si adopera perché finisca al più presto quella vergognosa e ingiusta condanna. Chiama alla difesa del giovane sindaco l’avvocato Federico Comandini, uno dei principi del foro dell’epoca, mobilita gli amici politici, si rivolge all’editore Giulio Einaudi perché il padre, presidente della Repubblica, intervenga. Scotellaro verrà assolto dalla Corte d’Appello di Potenza su richiesta dello stesso procuratore generale, che parla espressamente di una congiura politica.
Scotellaro esce dal carcere, un’esperienza che lo segnerà per sempre, e rinuncia al mandato di sindaco. Comincia l’ultimo periodo della sua vita col trasferimento all’Osservatorio di economia agraria di Portici, diretto da Manlio Rossi Doria, e con frequenti visite a Roma.
L’amicizia tra Scotellaro e Carlo Levi era nata qualche anno prima, nel 1946, nel corso della campagna elettorale per il referendum istituzionale e per l’Assemblea Costituente. Levi era candidato nella lista di Alleanza Repubblicana nel collegio Potenza-Matera. Il ritorno di Levi in Lucania, come già detto in altra occasione, non fu facile né pacifico. Il suo Cristo si è fermato a Eboli aveva indispettito una parte dei lucani perché, ai loro occhi, quel libro suonava come una rivelazione indebita della miseria materiale delle plebi e della miseria morale delle classi dirigenti corrotte.
Ma a Tricarico trovò la speranza, quella vera. Qui operava il giovane Scotellaro, poeta e militante politico socialista, allora ventitreenne. Per Levi, Scotellaro sarebbe stata una rivelazione, quasi una reincarnazione del suo amico Piero Gobetti, resa ancora più realistica per l’aspetto di ragazzo maturato precocemente e per il comune destino di una brevissima esistenza. Da allora nacque una profonda amicizia che finirà solo con la prematura morte del poeta-contadino.
Scotellaro sarà sempre accanto a Levi nella battaglia per la rinascita del Sud. Entrambi avevano intuito l’enorme importanza che il mondo contadino avrebbe potuto avere nella trasformazione dell’Italia, se esso fosse stato usato come una forza “rivoluzionaria” nel Sud. Ma su quella visione, sulla funzione delle masse contadine, esisteva – come già detto – una divisione profonda nella sinistra.
Rocco Scotellaro muore a Portici, mentre è impegnato in un’inchiesta – tra le più belle inchieste sociali italiane – per conto dell’editore Laterza, sui contadini meridionali (Contadini del Sud, pubblicato postumo). Una morte improvvisa, una morte che i “suoi” contadini non accettano, che ritengono ingiusta.
Quando il feretro arriva a Tricarico, proveniente da Portici, è accolto da una folla incredibile, una folla mai vista. E c’è chi pretende che la bara venga scoperchiata: non riesce a credere e vuole controllare che dentro ci sia davvero Rocco. Rocco, quel ragazzo dai capelli rossicci, il loro apostolo, il loro simbolo. E il simbolo, come il mito, non muore.