Ricorre quest’anno l’ottantesimo anniversario della bomba atomica su Nagasaki. Era il 9 agosto 1945, una mattina d’estate come tante: il cielo era limpido, la città si svegliava con i suoi gesti quotidiani, qualcuno preparava il tè, qualcun altro prendeva la bicicletta. Nessuno immaginava che alle 11:02 il tempo si sarebbe fermato. Dal cielo arrivò “Fat Man”, la seconda bomba atomica in soli tre giorni. Cadde su case, ospedali, scuole, sulla cattedrale di Urakami. Cadde sulle persone – madri, operai, bambini – che quella mattina non avevano fatto nulla se non vivere. In pochi minuti, una città intera fu cancellata. Ma non fu solo Nagasaki a cambiare. A cambiare fu la nostra idea di umanità, di futuro, di limite. Per la prima volta il mondo scoprì che poteva distruggersi da solo, e che bastava un ordine, una rotta, una scelta.
Nagasaki, in realtà, non doveva essere colpita. Il bombardiere Bockscar aveva un altro obiettivo: Kokura. Ma quella mattina, sopra la città, il cielo era coperto da nuvole e fumo. La visibilità era scarsa, e così fu dato l’ordine di cambiare rotta. Una decisione presa in volo, nel giro di pochi minuti, stabilì chi avrebbe vissuto e chi no. Una deviazione meteorologica trasformò il destino di migliaia di persone. La bomba cadde su Nagasaki, e colpì in pieno il quartiere di Urakami. Proprio lì sorgeva la più grande cattedrale cattolica dell’Asia, simbolo di una comunità cristiana che aveva resistito per secoli a persecuzioni, silenzi, clandestinità. Le statue della Vergine furono scagliate lontano, le campane si fusero nel calore, i corpi si confusero con le pietre. Non restò distinzione tra ciò che era umano e ciò che era sacro. In un luogo nato per tenere insieme mondi diversi – Oriente e Occidente, fede e cultura – si aprì invece una frattura profonda, forse la più lacerante del secolo.
Tra le 60.000 e le 80.000 vittime stimate, la gran parte erano civili. Persone comuni, colte nel mezzo della loro quotidianità. C’era chi stava andando al lavoro, chi preparava il pranzo, chi pensava che quella sarebbe stata una giornata qualunque. Nessuno sapeva che stava per diventare parte, involontaria, di un evento destinato a cambiare il corso della storia. Negli anni successivi al bombardamento, alcune voci si sono levate con l’intento di raccontare ciò che era accaduto. Una di queste è quella di Takashi Nagai, medico radiologo, convertito al cristianesimo, che perse la moglie e la casa. Colpito dalle radiazioni, visse i suoi ultimi anni in una piccola capanna alla periferia della città, scrivendo lettere e riflessioni che hanno lasciato una traccia. Nei suoi scritti, Nagasaki viene descritta come “la vittima d’espiazione per la pace del mondo”: una visione religiosa e profondamente personale, che per molti è diventata anche un modo per dare un senso a un evento difficile da spiegare. Un’altra figura significativa è quella di Sumiteru Taniguchi. Aveva diciassette anni e lavorava come postino quando venne investito dall’esplosione. Le ustioni riportate furono gravi, tanto da costringerlo a mesi di immobilità. La sua schiena ustionata divenne il simbolo stesso dell’atomica: fotografata, pubblicata, ricordata. La sua voce ha contribuito a costruire una memoria civile, non retorica, fondata su un principio semplice: perché il silenzio non basta.
Accanto a queste voci, ci sono quelle meno note, ma non meno importanti, delle donne. Molte scelsero il silenzio. Alcune lo fecero per pudore, altre perché non c’erano spazi in cui parlare. Portavano addosso cicatrici visibili e invisibili, e spesso anche il peso di maternità complicate: figli nati con malformazioni, senso di colpa, isolamento sociale. La memoria femminile della bomba atomica è rimasta ai margini per molto tempo, ma oggi si riconosce quanto sia centrale per capire davvero cosa ha significato sopravvivere.
Nagasaki non è solo un fatto storico. È anche una ferita culturale, una memoria che ci interroga non solo su ciò che è successo, ma su come lo abbiamo raccontato. Oggi Nagasaki è una città viva. Moderna, efficiente, piena di vita. I treni arrivano in orario, le scuole sono affollate, i porti lavorano a pieno ritmo. A guardarla oggi, è difficile immaginare cosa sia accaduto esattamente lì, sotto quei palazzi, tra quelle strade. Eppure, ogni 9 agosto, la città si ferma. Nel Parco della Pace, sotto la statua che indica il cielo con un braccio e con l’altro sembra voler proteggere, si ritrovano studenti, famiglie, sopravvissuti, delegazioni da tutto il mondo. Nessun gesto eclatante. Solo la consapevolezza che la memoria non è un’opzione. E che il silenzio, a volte, vale più di molte parole. A pochi passi, il Museo della Bomba Atomica racconta quello che è stato attraverso gli oggetti quotidiani: orologi fermi alle 11:02, bottiglie fuse dal calore, lettere mai spedite. Non è un museo della morte. È un luogo che invita alla responsabilità. Non a guardare il passato con paura, ma a interrogarsi sul presente. Nel 2024, la Nihon Hidankyo – l’associazione dei sopravvissuti all’atomica – ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Non è stato un premio al dolore, ma alla scelta di trasformarlo in testimonianza. Un riconoscimento che dice molto su cosa può diventare la memoria, se la si coltiva e non la si lascia morire nei discorsi ufficiali. Per l’80esimo anniversario, il sindaco ha voluto invitare tutte le nazioni, senza escludere nessuno. Nemmeno quelle oggi coinvolte in conflitti armati. Perché la memoria, se vuole servire davvero a qualcosa, non può essere selettiva.
Anche in Italia la memoria di Hiroshima e Nagasaki trova voce attraverso la cultura. Il 4 agosto 2025, nella Sala San Leonardo di Venezia, il Coro dell’Università di Musica Elisabeth di Hiroshima si è esibito in un concerto commemorativo, inserito all’interno di una mostra fotografica dedicata al bombardamento. Durante l’evento è stato letto un messaggio del sindaco di Hiroshima, Kazumi Matsui, a testimonianza del legame tra le due città. Non si è trattato di un’iniziativa isolata: Venezia e Hiroshima sono unite da un patto di amicizia rinnovato con la firma ufficiale a Ca’ Farsetti e rafforzato dalla partecipazione veneziana all’Expo di Osaka. “Fratellanza, dialogo e cooperazione possono avvicinare culture anche geograficamente lontane”, ha dichiarato il sindaco Luigi Brugnaro, sottolineando come l’arte possa diventare strumento di pace. Un ponte tra Oriente e Occidente, costruito con la musica e fondato sulla memoria e sulla speranza.
Il trauma atomico non è rimasto confinato alla cronaca. È entrato nella cultura, nella letteratura, nell’arte. Dal manga Barefoot Gen ai film come Black Rain, dalla scrittura di Ōe Kenzaburō alle fotografie di Shomei Tomatsu, il dolore si è fatto racconto, la ferita si è fatta voce. Secondo il SIPRI, nel mondo esistono ancora oltre 12.000 testate nucleari operative. Un sondaggio del Pew Research Center, pubblicato pochi giorni fa, mostra che solo il 35% degli americani considera giustificato l’uso delle bombe atomiche. Il 31% lo ritiene ingiustificato.
Nagasaki, allora, non è solo una data scritta nei libri o ricordata una volta all’anno. È qualcosa che continua a tornare, piano, quando meno ce lo aspettiamo. Una domanda che non ha mai smesso di farci compagnia, anche se spesso facciamo finta di non sentirla. È uno specchio che riflette le nostre scelte, ma anche i nostri silenzi. Ottant’anni sembrano tanti, ma certe ferite non invecchiano. Cambiano forma, cambiano nome, ma restano lì. E oggi, con il mondo che balla su nuovi equilibri sempre più fragili, con le parole guerra e minaccia che tornano a farsi spazio nei discorsi di ogni giorno, ricordare diventa qualcosa di concreto. Non è una cerimonia, non è un obbligo morale.
In un mondo in cui le tensioni geopolitiche tornano ad affacciarsi con forza – dai test missilistici in Asia alle crescenti spese militari in Europa, fino ai conflitti che coinvolgono civili in Medio Oriente e in Ucraina – la memoria di Nagasaki non è solo un fatto storico. È un avvertimento. L’equilibrio globale è di nuovo fragile, e i richiami alla deterrenza nucleare sono tornati nel lessico della diplomazia internazionale. La memoria, allora, non può essere confinata a una commemorazione rituale. Se oggi vuole avere un senso, deve uscire dai calendari e farsi presidio. Civile, quotidiano, condiviso. Una responsabilità collettiva, soprattutto in un tempo in cui le scelte politiche, tecnologiche e militari hanno impatti globali e immediati. Ricordare Nagasaki significa anche interrogarsi su quale ruolo vogliamo che la politica, le istituzioni, i cittadini abbiano di fronte a una nuova corsa agli armamenti. E se davvero abbiamo imparato qualcosa.
Ottant’anni sono passati, ma non abbastanza da cancellare il dovere di ricordare. Perché ogni bomba che non esplode comincia, in silenzio, da una memoria che tace.
Nel 2025, la memoria di Nagasaki non può dirsi chiusa. Mentre il mondo commemora l’evento, si moltiplicano i segnali di un nuovo equilibrio globale instabile. Gli Stati Uniti hanno posizionato sottomarini nucleari in prossimità della Russia, e Mosca ha risposto richiamando alla prudenza, evocando i principi del Trattato di non proliferazione. In Europa, Francia e Regno Unito hanno sottoscritto un accordo inedito per coordinare le rispettive strategie atomiche, mentre in Medio Oriente le tensioni tra Stati Uniti, Iran e Israele hanno generato nuovi attacchi su obiettivi nucleari. In questo contesto, la Cina continua a espandere il proprio arsenale con rapidità, consolidando il proprio peso strategico. Il SIPRI ha lanciato l’allarme: il controllo sugli armamenti nucleari si sta indebolendo, mentre la diplomazia fatica a contenere derive pericolose.
Ricordare Nagasaki oggi significa anche leggere questi segnali con lucidità, consapevoli che la memoria storica non è un esercizio del passato, ma una responsabilità verso il presente. La domanda che ci accompagna, ottant’anni dopo, non è solo cosa è accaduto, ma cosa può ancora accadere. Non si tratta di temere il passato. Si tratta di leggere il presente, prima che diventi storia.