Un pilastro della società civile in evoluzione
Il Terzo Settore italiano – l’insieme di enti privati che perseguono finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale anziché il profitto – è un pilastro fondamentale della società civile. La Costituzione stessa riconosce e promuove il ruolo di cittadini attivi e associazioni: all’art. 118, quarto comma, si stabilisce che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Proprio per dare attuazione a questo principio, nel corso dell’ultimo decennio il legislatore ha varato una profonda riforma del Terzo Settore, con l’intento dichiarato di rafforzare e promuovere il ruolo del non profit nella società. A distanza di alcuni anni dall’avvio di questa riforma, è utile fare il punto della situazione: quali obiettivi sono stati raggiunti, quali difficoltà sono emerse e quali vantaggi (o svantaggi) comporta oggi essere un “Ente del Terzo Settore” (ETS)?
La riforma del Terzo Settore: obiettivi e novità principali
La riforma ha preso forma con la legge delega n. 106/2016 (Governo Renzi) e i successivi decreti attuativi del 2017, in particolare il Codice del Terzo Settore (d.lgs. 117/2017). L’obiettivo era unificare e aggiornare la normativa frammentata preesistente, ordinando in un quadro unitario realtà diverse: Organizzazioni di volontariato (OdV), Associazioni di Promozione Sociale (APS), Onlus, enti filantropici, imprese sociali, ecc.. Tutte queste forme oggi rientrano nella categoria degli Enti del Terzo Settore (ETS), una qualifica giuridica introdotta dalla riforma.
Tra le novità cardine vi è l’istituzione del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS), un registro telematico pubblico gestito dal Ministero del Lavoro. Iscriversi al RUNTS è facoltativo ma necessario per acquisire lo status di ETS e accedere al nuovo regime agevolativo. Il Registro unico ha sostituito i molteplici registri regionali e di settore precedenti, con l’intento di assicurare maggiore trasparenza e raccogliere in un unico elenco nazionale i dati base di ogni ente iscritto. Secondo i dati aggiornati, l’adesione al RUNTS è stata significativa: a fine 2024 risultavano oltre 130.000 enti iscritti (in crescita rispetto ai 120.000 dell’anno precedente). Tuttavia, questo numero – per quanto rilevante – rappresenta solo una parte del vasto universo non profit italiano, segno che non tutte le organizzazioni hanno scelto o sono riuscite a entrare nel nuovo registro.
Le finalità dichiarate della riforma erano ambiziose: rafforzare il ruolo del Terzo Settore “facilitando la loro attività, aumentando la trasparenza e promuovendo la partecipazione attiva dei cittadini”. A tal fine sono stati previsti, tra l’altro: l’obbligo di pubblicare bilanci e attività, l’introduzione di incentivi fiscali per chi sostiene gli ETS, nuove regole per garantire democrazia interna (come l’eleggibilità degli organi direttivi, il principio della porta aperta agli associati, ecc.), nonché misure tese a semplificare le procedure amministrative per gli enti. In parallelo, il Codice del Terzo Settore ha definito in positivo il perimetro delle attività di interesse generale (art. 5 CTS) e ha sancito strumenti di collaborazione innovativa con gli enti pubblici (ad esempio la co-programmazione e co-progettazione di cui all’art. 55 CTS, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale). In sintesi, sulla carta la riforma ha voluto “stabilire un quadro normativo promozionale per le variegate manifestazioni del pluralismo sociale italiano”, cercando un equilibrio non semplice tra promozione e autonomia da un lato, controllo e trasparenza dall’altro.
Oneri burocratici e difficoltà per le associazioni
Se gli intenti erano lodevoli, la messa a terra della riforma non è stata indolore. Molte associazioni di base – soprattutto le più piccole, gestite interamente da volontari – si sono trovate ad affrontare nuovi adempimenti burocratici complessi, al punto che c’è chi parla di riforma “difficile” e dai “nodi costituzionali delicatissimi”. In concreto, l’iscrizione al RUNTS e il mantenimento della qualifica di ETS comportano una serie di oneri amministrativi paragonabili a quelli di un’azienda, il che ha spiazzato non pochi enti non profit. Ad esempio, molte associazioni hanno dovuto aggiornare il proprio statuto per conformarsi alle previsioni del Codice, affrontando anche i costi relativi: adeguare l’atto costitutivo entro le scadenze (prorogate più volte) ha significato spesso rivolgersi a consulenti legali o notai. Chi era costituito con scrittura privata registrata ha dovuto registrare anche le modifiche statutarie all’Agenzia delle Entrate, con ulteriori spese.
Inoltre, agli ETS è richiesto di tenere una contabilità più strutturata rispetto al passato. Tutti gli enti iscritti al RUNTS devono redigere un bilancio di esercizio annuale secondo modelli ministeriali standardizzati e depositarlo nel Registro. Ciò significa che realtà abituate finora a un semplice rendiconto finanziario hanno dovuto dotarsi di un vero e proprio “apparato contabile” all’altezza. Non sorprende che molte piccole associazioni abbiano dovuto coinvolgere un commercialista o esperto contabile per evitare errori nella gestione.
Insomma, la riforma ha introdotto maggiore formalizzazione e obblighi di trasparenza, ma questo ha inevitabilmente aumentato i costi e il carico amministrativo a carico degli enti.
Non pochi operatori del Terzo Settore hanno criticato questa misura come contraddittoria, chiedendosi se abbia senso trattare di fatto il volontariato come un’attività d’impresa. In generale, si registra il timore che un eccesso di burocratizzazione finisca per soffocare la spontaneità associativa, allontanando soprattutto i volontari più giovani o disincentivando la nascita di nuove organizzazioni. Emblematico è il monito lanciato da alcuni osservatori: con l’attuazione della riforma “c’è il rischio di un impoverimento del tessuto sociale delle comunità locali”, se molte piccole realtà non riusciranno a reggere il passo.
Associazioni di “serie A” e “serie B”? Il nodo del RUNTS
Un’altra critica diffusa è che la riforma, lungi dal “favorire l’autonoma iniziativa” di tutti i cittadini (come auspica la Costituzione), di fatto avrebbe creato una distinzione tra enti di prima classe e seconda classe – quelli dentro o fuori dal RUNTS. L’espressione “associazioni di serie A e di serie B” è stata usata proprio da chi, sul territorio, ha percepito un trattamento differenziale tra ETS registrati e associazioni non iscritte. In effetti, solo iscrivendosi al RUNTS un ente non profit ottiene la qualifica di Ente del Terzo Settore e può godere delle agevolazioni introdotte dalla riforma. Gli incentivi, le facilitazioni e in generale le nuove regole valgono esclusivamente per gli ETS ufficialmente riconosciuti, cioè per le organizzazioni che risultano iscritte nel Registro. Chi rimane fuori non può neppure legittimamente fregiarsi della denominazione “ETS”.
Questa situazione ha sollevato preoccupazioni e dubbi di legittimità. Da un lato, c’è il timore che molte associazioni – specialmente quelle più piccole, i comitati spontanei, i circoli locali – non riescano o non vogliano entrare nel RUNTS, restando così escluse dal nuovo sistema di riconoscimento. I dati iniziali sembrano confermarlo: analizzando le organizzazioni coinvolte nella “trasmigrazione” ai nuovi registri, uno studio ha stimato che solo una piccola parte delle istituzioni non profit potenzialmente idonee entrerà nel RUNTS, ottenendo la qualifica di ETS e quindi l’accesso alle opportunità previste dalla legge. In Lombardia, ad esempio, a metà 2022 risultava che meno di un terzo degli enti non profit censiti avrebbe assunto la nuova qualifica, nello scenario più ottimistico. È vero che nel frattempo le iscrizioni sono cresciute (soprattutto grazie alla migrazione automatica di OdV e APS già iscritte ai vecchi registri regionali, nonché alla necessità per le ex Onlus di ricollocarsi entro il 2025). Tuttavia, il Terzo Settore “ufficiale” rischia di non coincidere più con l’intero universo dell’associazionismo di promozione sociale e volontariato, bensì solo con quella sua frazione che soddisfa i requisiti formali e ha le risorse per adeguarsi. Il paradosso, segnalano i critici, è che si sta delineando un ecosistema dove “gli attori a pieno titolo del Terzo Settore” (ovvero gli ETS registrati) potrebbero rappresentare appena metà – se non un terzo – delle realtà associative che operavano storicamente a beneficio della collettività.
In questo contesto, la distinzione tra enti di “serie A” (iscritti al RUNTS) e “serie B” (non iscritti) diventa concreta. Gli enti rimasti fuori dal RUNTS non perdono la facoltà di esistere o operare, ma risultano penalizzati su vari fronti: ad esempio, non possono più accedere ad alcuni benefici fiscali, né partecipare al riparto del 5 per mille destinato al Terzo Settore, né stipulare convenzioni privilegiate con gli enti pubblici. Al contrario, gli enti regolarmente iscritti ottengono un riconoscimento formale e possono rivendicare quei vantaggi (onori) che la riforma riserva agli ETS. È come se il perimetro legale del Terzo Settore si fosse ristretto: chi ne rimane fuori, pur continuando magari a svolgere attività di utilità sociale, rischia di essere trattato alla stregua di un’associazione qualunque, priva dello status speciale e del sostegno promesso dalla legge. Alcuni arrivano a sostenere che ciò contrasti con lo spirito costituzionale, poiché l’art. 118 impone alla Repubblica di favorire l’iniziativa libera dei cittadini, non di introdurre barriere burocratiche o differenze di serie tra forme associative. Si tratta ovviamente di una lettura critica: i sostenitori della riforma replicano che il nuovo ordinamento non impedisce affatto l’esercizio della libertà associativa, ma semplicemente definisce condizioni e standard perché un ente possa beneficiare delle misure di promozione pubblica (trasparenza in cambio di agevolazioni, in una logica di equilibrio). Resta però aperto il tema di come assicurare che la “porta d’ingresso” al Terzo Settore regolato rimanga sufficientemente ampia e accessibile, per evitare di perdere per strada quel patrimonio diffuso di piccole associazioni e volontari che da sempre arricchiscono il tessuto sociale italiano.
Quali vantaggi per gli ETS (e perché aderire)?
Visti i costi e gli obblighi, che vantaggi concreti offre essere un ETS o un’APS oggi? Perché un’associazione dovrebbe affrontare la trafila burocratica per iscriversi al RUNTS? In primo luogo, l’adesione al registro attiva una serie di agevolazioni fiscali e misure di sostegno che altrimenti non sarebbero accessibili. Il Ministero del Lavoro riassume così i benefici: l’iscrizione consente di “beneficiare di agevolazioni, anche di natura fiscale, di accedere al 5 per mille e – per specifiche tipologie di ETS – a contributi pubblici o di stipulare convenzioni con le pubbliche amministrazioni”. In altri termini, uno status di favore sia sul piano fiscale che nei rapporti con gli enti pubblici:
- Agevolazioni fiscali per l’ente: Il Codice del Terzo Settore prevede un regime fiscale dedicato. Ad esempio, per gli ETS non commerciali (quelli che svolgono principalmente attività gratuite o a tariffe simboliche) è ammesso un regime forfettario agevolato per le eventuali attività commerciali marginali (con coefficiente di redditività ridotto). Inoltre, i proventi da raccolte fondi occasionali e i contributi pubblici ricevuti non concorrono a formare il reddito imponibile degli ETS non commerciali, il che significa non dover pagare imposte su queste entrate di sostegno. Sono vantaggi significativi rispetto a un’associazione “esterna” al RUNTS, che invece sarebbe tassata secondo le regole ordinarie degli enti non commerciali (TU Imposte sui Redditi) senza queste esenzioni. In sintesi, un ETS conforme ai requisiti gode di una fiscalità di favore: minore tassazione sulle attività istituzionali e sulle entrate a scopo sociale.
- Incentivi per chi dona e sostenitori: La riforma ha introdotto forti incentivi per i donatori degli ETS. Le persone fisiche che erogano liberalità in denaro o in natura a favore di un Ente del Terzo Settore possono scegliere tra una detrazione d’imposta pari al 30% dell’importo donato (35% se destinato a una Organizzazione di Volontariato) fino a 30.000 € annui, oppure la deduzione dal proprio reddito imponibile della donazione (fino al 10% del reddito dichiarato). Si tratta di percentuali più elevate rispetto al passato (la detrazione era al 26% per le Onlus prima della riforma). Anche le imprese hanno la possibilità di dedurre le donazioni entro il 10% del reddito. Queste misure rendono più conveniente supportare economicamente gli ETS, aumentando le potenzialità di fundraising per le organizzazioni iscritte. Un donatore, ad esempio, sa che finanziando un’APS o una fondazione iscritta al RUNTS potrà recuperare fiscalmente una parte significativa della somma donata. Inoltre, solo gli ETS possono accedere al già citato 5×1000: ogni anno gli enti presenti nell’elenco degli accreditati possono ricevere questa quota dell’IRPEF grazie alle scelte dei contribuenti, un meccanismo che dal 2022 è aperto esclusivamente agli ETS (oltre che ad alcune categorie particolari in transizione, come le Onlus ancora iscritte all’anagrafe fino al 2025).
- Rapporti privilegiati con la Pubblica Amministrazione: Diventare ETS significa entrare in un circuito istituzionale riconosciuto. Gli enti pubblici, in attuazione del principio di sussidiarietà, possono coinvolgere attivamente gli ETS nella programmazione e coprogettazione di interventi di interesse generale (come previsto dall’art. 55 CTS). In molti bandi, accordi di collaborazione, convenzioni per la gestione di servizi socio-assistenziali, culturali, sportivi ecc., l’iscrizione al RUNTS è un requisito necessario o comunque un elemento preferenziale. Ad esempio, un’APS iscritta potrà più facilmente stipulare una convenzione con il Comune per gestire un centro giovanile, o una OdV potrà ottenere in concessione uno spazio pubblico dove svolgere le proprie attività, grazie alle norme che riservano agli ETS queste opportunità. Anche l’accesso a contributi pubblici dedicati è spesso condizionato all’essere ETS: il Ministero e altri enti pubblici stanziano fondi (si pensi al Fondo per il Terzo Settore, ai fondi sociali europei, ecc.) a cui solo gli enti accreditati possono concorrere. In sostanza, lo status di ETS apre porte che altrimenti resterebbero chiuse, consentendo a un’associazione di entrare a pieno titolo nelle reti di co-programmazione territoriale e di usufruire di convenzioni vantaggiose (ad esempio, per le APS, convenzioni con ASL e Comuni per attività socio-sanitarie, o per le OdV nell’ambito del trasporto d’emergenza, ecc.).
- Personalità giuridica e credibilità: L’iscrizione al RUNTS, contestuale all’adeguamento dello statuto ai requisiti del Codice, offre anche la possibilità di ottenere in modo semplificato il riconoscimento della personalità giuridica (per gli enti che lo desiderano). Infatti, un ETS può chiedere l’acquisizione della personalità giuridica direttamente tramite il registro unico, con requisiti patrimoniali semplificati rispetto al passato. Ciò permette, ad esempio, ad un’associazione di tutelare il patrimonio personale degli associati e amministratori (responsabilità limitata) e di apparire più solida verso terzi. Più in generale, essere iscritti conferisce all’ente una maggiore visibilità e affidabilità: il RUNTS è pubblico e consultabile da chiunque, per cui cittadini, aziende o altri enti possono verificare l’esistenza, lo statuto, i bilanci e le cariche sociali di un ETS. Questo aumenta la fiducia e la reputazione dell’ente – un aspetto non trascurabile, ad esempio, per convincere potenziali finanziatori o partner. In breve, l’ETS viene “chiamato per nome” dal punto di vista normativo e pubblico, guadagnando uno status riconosciuto che prima mancava.
Conclusioni: il bilancio tra luci e ombre
La riforma del Terzo Settore in Italia rappresenta, nel bene e nel male, una svolta epocale per l’associazionismo e il volontariato. Tra i meriti indiscutibili vi è l’aver dato dignità giuridica unitaria a un mondo prima frammentato, riconoscendo finalmente per legge il valore sociale del “Terzo Settore” come attore distintivo, accanto allo Stato e al mercato. Ha portato maggiore trasparenza, più tutele per chi dona e per chi vi opera, e ha creato opportunità di partenariato pubblico-privato sociale prima appena abbozzate. Le agevolazioni introdotte (fiscali, contributive, normative) potranno, nel medio periodo, rafforzare la sostenibilità economica e la capacità operativa di molte organizzazioni non profit. Basti pensare che a giugno 2025 è arrivata la tanto attesa “comfort letter” dell’UE che riconosce la natura non commerciale degli ETS e sblocca definitivamente l’attuazione dei nuovi regimi fiscali agevolati per il settore. Dal 2026, dunque, dovrebbero divenire operative ulteriori misure promesse dalla riforma (utile reinvestito esentasse, incentivi per investitori in titoli di solidarietà, ecc.). In prospettiva, ciò traccia una via italiana all’economia sociale, in cui gli enti solidali godono di uno status fiscale e giuridico ad hoc, riconosciuto anche in Europa come “modello basato su solidarietà, sussidiarietà e finalità di interesse generale”.
Dall’altro lato, non si possono ignorare le ombre e le criticità emerse. La riforma, per sua natura complessa e ambiziosa, ha richiesto continui aggiustamenti (numerose circolari ministeriali, proroghe, decreti integrativi) e ha messo in luce la difficoltà di coniugare il bisogno di controlli e ordine con la realtà fluida del volontariato. Molte piccole associazioni si sono sentite spaesate di fronte a obblighi amministrativi poco proporzionati alla loro dimensione. C’è il rischio concreto che alcune, scoraggiate, abbiano preferito chiudere o ridurre l’attività anziché affrontare costi e burocrazia aggiuntiva – ed è un rischio che non possiamo permetterci, perché ogni associazione che scompare rappresenta un pezzo di coesione sociale in meno sul territorio. La sfida, per il legislatore e gli stakeholder, sarà quindi “aggiustare il tiro” dove necessario: semplificare ulteriormente le procedure per gli enti minori, fornire assistenza e formazione (in parte i CSV già lo fanno) e magari introdurre soglie di esenzione da certi adempimenti per gli enti più piccoli, così da alleggerire il carico senza tradire i principi di trasparenza.
Possiamo quindi concludere il nostro bilancio sul Terzo Settore italiano post-riforma che, a nostro avviso, presenta sia luci e ombre. Non è stata una “panacea” e alcuni parlano di “occasione mancata”, ma è innegabile che abbia segnato un avanzamento culturale e normativo. Più che abolire la riforma, oggi si tratta di farla funzionare al meglio, correggendone gli effetti indesiderati in ossequio allo spirito costituzionale di sussidiarietà orizzontale. Il Terzo Settore vive di autonoma iniziativa dei cittadini e questa va sì valorizzata e indirizzata, ma mai irreggimentata al punto da soffocarla. Come spesso accade, la parola chiave è equilibrio: il sistema dovrà trovare un equilibrio tra rigore e libertà, tra oneri e onori, affinché nessun ente valido resti indietro e affinché tutti – dai volontari di quartiere alle grandi reti nazionali – possano continuare a contribuire, ciascuno a suo modo, al bene comune. In fondo, il Terzo Settore siamo tutti noi quando ci organizziamo liberamente per aiutare gli altri e migliorare la società: una risorsa preziosa che va sostenuta concretamente, senza inutili complicazioni, nel solco dei valori costituzionali.