Questo articolo esplora criticamente le correnti del transumanesimo e del postumanesimo, evidenziando le rispettive implicazioni etiche, ontologiche e sociali. In particolare, si pone l’accento sulla necessità di ricostruire relazioni autentiche, solidali ed efficaci come risposta alla tendenza bellicosa insita nella natura umana. Lungi dall’essere solo correnti speculative, transumanesimo e postumanesimo pongono interrogativi cruciali sulla direzione evolutiva dell’umanità, aprendo possibilità ma anche rischi. Si sostiene che, indipendentemente dai progressi tecnologici e biotecnologici, solo una rinnovata centralità del legame umano possa costituire un argine al riemergere ciclico della violenza e della sopraffazione.
La doppia natura dell’umano tra progresso e distruttività
L’essere umano è da sempre abitato da una tensione tra pulsioni creative e distruttive. Da un lato, egli costruisce civiltà, sviluppa linguaggi, istituisce etiche; dall’altro, la storia è segnata da guerre, genocidi e atti di sopraffazione sistemica. In questa dialettica si inserisce il dibattito contemporaneo sul transumanesimo e sul postumanesimo: due prospettive teoriche e operative che si propongono di superare – o almeno riformulare – i limiti ontologici e biologici dell’essere umano.
Il transumanesimo, con il suo ottimismo tecno-scientifico, mira a potenziare l’individuo attraverso l’integrazione tra uomo e macchina. Il postumanesimo, invece, decostruisce l’antropocentrismo moderno, ridefinendo l’essere umano come entità relazionale e distribuita in una rete ecologica e tecnologica più ampia. Entrambe le prospettive si confrontano con la questione fondamentale del male e della bellicosità: la tendenza umana alla competizione violenta può essere superata potenziando la razionalità o destrutturando l’identità tradizionale? Oppure vi è un’esigenza ancora più radicale: è possibile ripensare l’umano attraverso il paradigma della relazione?
Transumanesimo: superamento o escamotage?
Il transumanesimo si configura come un movimento culturale e filosofico che auspica il potenziamento dell’essere umano attraverso le tecnologie emergenti: intelligenza artificiale, nanotecnologie, biotecnologie, ingegneria genetica. Tra i principali teorici del transumanesimo figurano Nick Bostrom, Ray Kurzweil e Max More, i quali sostengono che l’essere umano è una fase transitoria dell’evoluzione, destinata a essere superata da entità più intelligenti, più longeve e meno soggette agli impulsi distruttivi.
Tuttavia, l’assunto implicito secondo cui il miglioramento tecnico conduca automaticamente al miglioramento etico appare problematico. L’ipotesi che la violenza sia legata a limiti biologici – ad esempio all’aggressività neurochimica – ignora la dimensione culturale, simbolica e relazionale del conflitto. Le guerre moderne, condotte spesso da tecnocrati e algoritmi, dimostrano che l’aumento dell’intelligenza o della potenza non implica affatto la riduzione della violenza. In altre parole, il transumanesimo rischia di produrre post-umani tecnicamente avanzati, ma moralmente inadeguati.
Postumanesimo critico: decostruzione dell’antropocentrismo e apertura al legame
A differenza del transumanesimo, il postumanesimo – nella sua versione critica – si concentra sulla decostruzione della centralità ontologica dell’uomo. Pensatori come Rosi Braidotti, Donna Haraway e Cary Wolfe propongono una ridefinizione dell’umano non più come soggetto sovrano e separato, ma come nodo in una rete di relazioni interspecie, tecnologiche e ambientali.
In questa visione, l’essere umano non è più padrone del mondo, ma coesistente con altre forme di vita e con sistemi artificiali. Questo decentramento può rappresentare una risposta alla violenza strutturale prodotta dalla dicotomia noi/loro, umano/altro, civile/barbaro. La violenza emerge infatti non solo da istinti individuali, ma da dispositivi epistemologici che costruiscono l’altro come nemico, come minaccia, come figura da eliminare.
Il postumanesimo invita a superare la logica dell’opposizione, proponendo invece un’etica della connessione, della vulnerabilità condivisa e della coesistenza differenziale. Tuttavia, anche il postumanesimo corre il rischio di una astrazione eccessiva, se non accompagna il decentramento dell’umano a una reale costruzione di pratiche relazionali efficaci, concrete e solidali.
Relazioni autentiche come strategia antropologica contro la bellicosità
La storia dell’umanità mostra che le relazioni autentiche, basate su empatia, riconoscimento reciproco e cura, siano in grado di contrastare le pulsioni belliche, individuali e collettive. Teorie etiche come quelle di Martin Buber (Ich und Du, Tu ed io), Emmanuel Lévinas (l’etica come responsabilità verso l’Altro) e Paul Ricoeur (la phronesis relazionale o saggezza pratica) offrono strumenti concettuali per radicare l’umano in un orizzonte relazionale, piuttosto che competitivo.
La questione centrale non è quindi solo che cosa diventeremo attraverso le tecnologie, ma come ci relazioneremo agli altri – umani e non umani – in un mondo sempre più ibrido. Una civiltà che non coltiva la relazione rischia di produrre esseri potenziati, ma incapaci di comprensione, cooperazione e giustizia. In tale prospettiva, la bellicosità non è un destino biologico, ma una possibilità culturale, che può essere disinnescata solo attraverso l’educazione alla relazione, alla co-creazione di senso e alla corresponsabilità etica.
Verso un umanesimo relazionale post-antropocentrico
Transumanesimo e postumanesimo pongono interrogativi cruciali sulla nostra identità, sui nostri limiti e sul nostro futuro. Tuttavia, entrambe le visioni, se non integrate con una rinnovata antropologia della relazione, rischiano di fallire nell’obiettivo di superare la violenza.
Solo un umanesimo relazionale – capace di coniugare l’apertura al nuovo con la responsabilità verso l’altro – può costituire una vera alternativa alla bellicosità strutturale che ha segnato la storia umana. Tale umanesimo, lungi dall’essere nostalgico o reazionario, può innestarsi criticamente nel postumanesimo, recuperando la centralità dell’incontro e della cura in un mondo in rapida trasformazione.
Nel tempo delle macchine senzienti e delle reti interconnesse, la vera rivoluzione non sarà tecnologica, ma relazionale: sarà la capacità di restare umani mentre diventiamo altro.