Con Saltburn la regista di Una Donna Promettente ha provato a rendere glamour e accattivante la lotta di classe, ma il risultato finale si regge solo sulle ottime performance di Barry Keoghan e Rosamund Pike
Di Saltburn si sta facendo un gran parlare, e d’altronde non poteva essere altrimenti: il film di Emerald Fennell è stato immediatamente alla portata di tutti grazie alla sua presenza nel catalogo Prime Video e ha fatto sfoggio, sin dalle prime immagini diffuse via web, di un’estetica accattivante e di due stelle ormai più che in rampa di lancio come Jacob Elordi e Barry Keoghan, nonché della promessa di qualche scena destinata a scandalizzare gli spettatori più sensibili. Il risultato, però, ci parla di un film che proprio su quelle promesse si è adagiato fin troppo, finendo per dispendere la sua voglia di trattare tematiche importanti in un mare di autocompiacimento e strizzatine d’occhio fini a sé stesse.
Nel seguire le vicende di Oliver, studente povero in canna e figlio di genitori tossicodipendenti (scopriremo in seguito che si tratta di una menzogna) che riesce a entrare nelle grazie di Felix e della sua famiglia di nobile stirpe, Fennell sembra infatti volersi concentrare piĂą sulla ricostruzione di un 2006 che farĂ sicuramente sobbalzare il cuore ai piĂą nostalgici e sul creare il setting per quelle scene di cui parlavamo in apertura (la vasca da bagno e la tomba, chi ha visto il film capirĂ ) che sul mettere in piedi dei personaggi credibili, sfaccettati e con motivazioni sensate per le loro azioni.
La scrittura, anche e soprattutto nel caso di Oliver e del suo “piano da genio del male”, appare raffazzonata e superficiale (difetti che, ad esempio, non toccavano la protagonista del precedente lavoro della regista, Una Donna Promettente, pur non privo di criticità ): perché il personaggio di Barry Keoghan invidia così tanto la posizione di Felix, non provenendo certo da una condizione sociale disagiata? Perché il ricchissimo rampollo con il volto di Jacob Elordi pare a momenti così insofferente nei confronti della sua famiglia, limitandosi però a qualche sguardo triste e nulla più? Domande che non troveranno risposta.
Proprio sul piano di Ollie, che decide lucidamente di sterminare un pezzo alla volta la famiglia di Felix allo scopo di impossessarsi degli averi dei Catton, va poi aperta una parentesi a sé stante: Saltburn sembra voler reclamare un posto in quel filone “eat the rich” che tanto ha spopolato negli ultimi anni, ma non riesce neanche ad avvicinarsi alla potenza di un Parasite o all’efficacia di un The Menu, che ci regalavano, pur mettendo in scena situazioni ai limiti dell’assurdo, in primis protagonisti credibili e con delle motivazioni valide in relazione alla loro classe sociale di appartenenza, e in secondo luogo dei ricchi sì abituati a vivere in un mondo tutto loro, ma neanche stupidi in maniera irreale quanto i genitori di Felix (e il loro medico legale, incapace di riconoscere una morte per avvelenamento).
Se in Parasite la famiglia del protagonista rischiava a intervalli regolari di veder saltare la copertura, cavandosela spesso per il rotto della cuffia, Oliver sembra infatti godere di una plot armor degna delle peggiori fan-fiction, perfetto esempio di protagonista al quale le cose devono filare lisce perché così è stato deciso, e non basta certo la frase “a differenza vostra so cosa vuol dire lavorare” a giustificare la totale inettitudine dei Catton.
La mancanza di motivazioni valide fa inoltre sì che latiti, in Saltburn, quel senso di ristabilita giustizia (o di presa di coscienza dell’ingiustizia sociale) che dovrebbe contraddistinguere i film desiderosi di avventurarsi nel terreno della lotta di classe: quella di Oliver è semplice fascinazione per la ricchezza dovuta a una mente instabile che però non ci viene adeguatamente presentata e che avrebbe, forse, meglio espresso le sue ragioni in un contesto come quello attuale, nel mondo dei social che alimentano invidia a qualunque altezza della piramide sociale, e non in un 2006 nel quale simili discorsi erano ancora relativamente acerbi. L’impressione, insomma, è che con Saltburn si sia cercato di rendere glamour un concetto per sua natura sporco e impietoso, e che per di più lo si sia fatto con poca dimestichezza, preferendo la fotografia instagrammabile, le timide scene-scandalo e i simbolismi un tanto al chilo (Shakespeare, il labirinto, l’angelo caduto) ad un po’ di sostanza.
Certo, qualcosa da salvare c’è: le ottime performance di Barry Keoghan e Rosamund Pike su tutti, le scenografie, la colonna sonora che farà fare un balzo al cuore dei più nostalgici (si alternano Bloc Party, MGMT, The Killers, Sophie Ellis-Bextor), ma a chi parte con intenti più alti è lecito chiedere di più. Ritenta, Emerald.